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Analisi Critica di De Sanctis sulla Letteratura Italiana: Dall'Amor Cortese al Barocco, Lecture notes of Italian literature

Un'analisi critica approfondita del pensiero di francesco de sanctis sulla letteratura italiana, esplorando le sue opinioni su autori chiave come dante, petrarca, boccaccio, leopardi e altri. Le prospettive di de sanctis sull'amor cortese, il barocco e il ruolo della poesia nella società, offrendo spunti di riflessione sulla critica letteraria e l'evoluzione della letteratura italiana.

Typology: Lecture notes

2023/2024

Available from 01/15/2025

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yacine-ouali 🇬🇧

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LA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA- De Sanctis

DIDATTICA E CRITICA DELLA LETTERATURA ITALIANA

Lezione 1 del 21 settembre ’23 OK

Per approfondimenti oltre i testi d’esame: Che cos’è la critica della letteratura italiana – Bottiroli La critica contemporanea italiana – Casadei La teoria della critica letteraria – Muzzioli

FRANCESCO DE SANCTIS

Cominciamo il corso con Francesco De Sanctis, critico letterario che si colloca nella temperie risorgimentale, di cui è assolutamente imbevuto, lo si vedrà nell’impostazione della sua Storia della letteratura italiana è piena di identità e riscatto nazionale. Lui nacque in area campana e la sua formazione, di stampo linguistico grammaticale, è avvenuta in Campania. Frequentò le lezioni di un purista, Basilio Puoti (1782-1847), che aveva una scuola a Napoli. Quando parliamo di purismo (prima metà dell’Ottocento con figura di riferimento Antonio Cesari, ma importante è anche Basilio Puoti), la cui posizione non è allineata a quella cruscante, ci riferiamo a chi predilige non strettamente il fiorentino letterario ma il linguaggio della letteratura del Trecento, alla ricerca di quella grazia e di quel naturale cantore, che era attribuita alla letteratura di quel periodo, anche alla letteratura di carattere devozionale, a testi di carattere pratico. Il trecento è visto un po' come l’aurora della nostra lingua, dalla quale trarre ninfa per gli scritti.

  • Vincenzo Monti , in realtà, afÏancava al Trecento anche un culto del Cinquecento. -Il Puoti , sulla linea dei puristi, aveva un approccio strettamente linguistico grammaticale e di carattere, formale con una predilezione per la letteratura del Trecento. Non a caso, sfogliando le pagine della sua Storia della letteratura italiana di De Sanctis, ci accorgeremmo che è un’opera bellissima, letteraria di per se, ma sbilanciata in quanto, perché se si considera l’edizione Salani, più di quattrocento (409) su cinquecento nove sono dedicate alla letteratura delle origini, con una grande diffusione della trattazione del Trecento. Questo approccio di Basilio Puoti è fondamentale, perché gli da quel sostrato, che poi De Sanctis andrà ad integrare con una preparazione filosofica che si andrà formando nel tempo e che poi lo vedrà privilegiare in ambito filosofico la prospettiva hegeliana , che noi vediamo proprio riprodotta nella Storia della Letteratura Italiana. Questo approccio legato alla forma è fondamentale, perché gli darà quella attenzione al fenomeno linguistico e ai fattori formali che bilancerà quella tendenza al contenutismo tipica di De Sanctis. De Sanctis, infatti, spesso ci invita a non giudicare l’opera dal suo contenuto (che sia vero o falso, morale o eticamente scorretto) però, poi di fatto finisce con il privilegiare, dal punto di vista valutativo, le opere con forte contenuto civile. Apprezza il Parini, ad esempio, svalutando Poliziano. Si può dire, tra mille virgolette, che è un critico che “predica bene ma razzola male”. Questa preparazione legata al purismo e quindi ad un certo formalismo, in qualche modo tenderà a bilanciare quel contenutismo a cui, in realtà, De Sanctis tende con i suoi giudizi. Nella scuola di Basilio Puoti, accanto a questa tendenza per questioni formali e contenutistiche, c’era anche una forte impronta di sentimento nazionale , ma ciò non deve stupire essendo in pieno Risorgimento. Quando però De Sanctis parla di Risorgimento, non lo usa per indicare il periodo che lui sta vivendo e come lo intendiamo noi, ma lo usa in riferimento al Rinascimento. Del resto il termine Risorgimento ci rimanda al concetto di Riannessans, di rinascenza, di risorgere. Queste sue origini lo porteranno ad impegnarsi lui in primis come patriota e dopo essere divenuto insegnante ed insegnò (alla Nunziatella, dove insegnava Basilio Puoti, subentrerà a Puoti), tende a richiamare i suoi alunni ai valori dell’unità nazionale e fu tra coloro che combatterono in prima persona nel 1848. Ciò lo portò a essere inviso alla polizia borbonica e infatti De Santis passerà trentadue mesi in carcere per poi essere costretto all’esilio, prima Torino poi Svizzera, dove fu docente universitario. Nel 1860 torna in Italia, intraprende la carriera di docente universitario e ricoprirà due volte la carica di Ministro della Pubblica Istruzione.

La tendenza al contenutismo ti porta a dare maggiore importanza al contenuto che tu vai ad esprimere e a considerare la forma come un involucro che racchiude il contenuto ma non è un tutt’uno con esso (ad es. chi è molto attento alla narrazione, al veicolare certe idee anche attraverso alla letteratura, ma non al cesello formale). La tendenza al formalismo si ha quando si eccede nella valorizzazione degli aspetti tecnico-formali di un’opera d’arte che può essere però vuota dal punto di vista contenutistico. Un’accusa di formalismo è stata indirizzata a Vincenzo Monti Dovrebbero essere un tutt’uno. Un’opera può peccare nel momento in cui è sbilanciata più verso forma (ad esempio Monti) o più verso il contenuto. Raggiunge l’equilibrio quando i due elementi si contemplano Le altre due parole-chiave sono ideale e reale : la formula aurea di De Sanctis è che l’ ideale dev’essere calato nel reale. Ciò significa che l’autore arriva a scrivere un’opera che ha un suo bagaglio culturale, valoriale, cognitivo di idee ma non è astratto, il quale ha due possibilità:

1. NON tradursi in vita concreta nelle opere (ad es. leggi un romanzo, vedi che in quel personaggio è stata espressa una determinata idea, ma vedi che l’autore non è riuscito a fondere l’ideale con il reale, cioè quel personaggio ci sembra astratto, non si vede la vita in quel un personaggio. Questo è il momento in cui l’ideale resta separato dal reale. 2. nel momento in cui si vede, invece, l’ideale, si è tradotto in una creatura che sembra avere carne e sangue e che si vede vive, è allora che l’ideale è calato nel reale. Ad esempio, nonostante De Sanctis criticò alcuni aspetti del Manzoni, ma gli riconobbe il fatto di esser riuscito a calare l’ideale nel reale, perché l’ideale manzoniano, lo si trova nella sua opera incarnato in personaggi vivi che ne rappresentano i vari livelli. Ad esempio c’è l’ideale religioso che trova il suo massimo compimento nel cardinale Borromeo, in Fra Cristoforo; lo trovi degradato e svilito nei personaggi di Don Abbondio, in Gertrude, ma questi ultimi due, più che nel cardinale Borromeo, li si vede come personaggi vivi. Don Abbondio, non è una figura che è stata forgiata per sostenere una tesi, ma che resta fredda. Cioè quell’ideale religioso degradato si vede incarnato in quel personaggio vivi, così come si vedono incarnati altri tanti elementi vitali in Renzo, in Agnese. Ad esempio De Sanctis, pur criticando il personaggio di Lucia perché troppo astratto, beatificata e assimilata alla Madonna, non era un personaggio non riuscito perché Manzoni era stato troppo bravo ad afÏancare questo personaggio alla tendenzialmente astratto a due personaggi ben più umili e reali come Renzo e Agnese, soprattutto Agnese, cioè personaggi che tendono a ricondurre a medietas e a concretezza, quella che è l’astrattezza di fondo del personaggio di Lucia. Il rapporto tesi-antitesi-sintesi vede la tesi nel Medioevo, l’antitesi nel Risorgimento e la sintesi nella letteratura contemporanea a D.S (Ottocento). -Abbiamo un Medioevo sbilanciato sul versante dell’ ideale , perché nella letteratura medioevale c’è tanto misticismo, teleologismo, scolasticismo; questo è ravvisabile anche nell’opera che meglio rappresenta questo periodo: la Commedia di Dante. È un’opera che ha una tensione ideale fortissima, a volte talmente forte che rischia di portarci nell’astratto (ecco perché il giudizio di De Sanctis è più positivo sull’Inferno, piuttosto che sul Paradiso, perché appunto più aderente alla realtà, mentre il Paradiso a volte pecca di astrattezza). De Sanctis condanna la maggiorparte della letteratura delle origini (la suola siciliana, la poesia di Guinizzelli) -Nel Risorgimento abbiamo un avanzamento del reale (ma anche culto della forma) che tende a reclamare i propri diritti. Questa tensione sempre più forte verso l’ideale rispetto al reale viene superata a vantaggio del secondo rispetto al primo, questo è un processo che nel Risorgimento è già in atto, ma che comincia con Petrarca e culmina con Boccaccio. Succede, infatti, che questo ridursi della tensione ideale a favore del calcolo del reale porta ad un infiacchimento dello spirito nazionale che non a caso coincide con il periodo dell’Italia che perde la sua autonomia politica e diventa uno scontro fra Francia e Spagna e in cui si assiste sempre più al culto della forma rispetto al contenuto. In molti autori di quegli anni (umanesimo e rinascimento) lui vede più l’artista, che il poeta; più il cesellatore formale che uno scrittore ispirato che veicola un contenuto alto. -Chiaramente se sul Risorgimento il giudizio non è totalmente positivo ma neanche negativo, basti immaginare cosa pensa sul Barocco : una stroncatura totale (in particolare su autori come Marino). -Assistiamo poi a una graduale risalita verso la sintesi , cioè al momento in cui ritorna la tensione ideale ma non è astratta bensì calata nella realtà, con prevalenza per la letteratura con impronta civile e nazionale. Questo lo cominciamo a vedere già con il realismo goldoniano , tra settecento e ottocento, anche se viene sempre sminuito da De Sanctis (soprattutto per i suoi difetti formati, è accusato di “colorito sciacquo” e mancanza di “divina malinconia”). Positivo è invece il giudizio su Parini , con il quale lui pala di “uomo nuovo” e

il secondo Foscolo (non quello dell’Ortis che viene stroncato, ma quello dei Sepolcri). Pausa Cerchiamo di capire come lavorava De Sanctis facendoci trasportare dai suoi giudizi. La Storia della letteratura italiana si apre con il Contrasto di Cielo D’Alcamo ( Rosa fresca aulentissima ). A proposito di questo componimento c’è da un lato un giudizio positivo per la freschezza che la caratterizza, per il suo brio tra l’amante che chiede e la donna che risponde negando e che non cede. D.S però afferma esserci ancora una certa rozzezza formale, stilistica. È una caratteristica spesso propria dei giudizi desanctisiani, lui tende ad apprezzare quei testi che hanno carattere popolareggiante ma poi li sminuisce dal punto di vista formale per la loro rozzezza. Continua subito con giudizi, non positivi, sulla lirica d’amore e la scuola siciliana. L’assunto da cui egli parte è “La letteratura italiana delle origini ha molto d’importazione, nasce nel segno della poesia francese”: lirica provenzale ( chanson de geste ) da un lato e cavalleresca di Francia dall’altra (romanzo cortese). Tutta questa letteratura che proponeva il tema amoroso trattato nelle forme dell’amor cortese e il motivo cavalleresco erano testi, temi e motivi che andavano bene nel contesto della Provenza e Francia settentrionale ma che stentavano a radicarsi concretamente in quell’Italia che andrà verso l’opzione dei comuni. Non a caso questi temi si annidano nella corte siciliana (la lirica siciliana); trattandosi di letteratura di corte risultò la più adatta a riprodurre quelle caratteristiche che portarono alla nascita della poesia provenzale. Ma di fatto la corte federiciane era tutt’altro rispetto alle corti provenzali, nell’organizzazione, nell’impostazione culturale, per cui questa letteratura che attinge all’amor cortese e lo cala nel contesto della penisola italica, per De Sanctis finisce per essere astratta e per perdersi in astruserie. Di fatti è negativo il giudizio su Jacopo da Lentini”. Questo giudizio diventa particolarmente duro soprattutto laddove J.D.L adotta il trobar clus , caratterizzato da un virtuosismo stilistico che spesso portava all’oscurità (Guittone D’Arezzo). Tra i testi di Da Lentini da lui citati troviamo il sonetto Lo viso, e son diviso dallo viso , che si gioca tutta sull’equivoco fonico di viso come volto, viso come presente indicativo di vedo, viso come elemento dell’infinito divisare. [E]o viso – e non diviso – da lo viso, e per aviso – credo ben visare; però diviso – ‘viso’ – da lo ‘viso’, c’altr’è lo viso – che lo divisare. E per aviso – viso – in tale viso de l[o] qual me non posso divisare: viso a vedere quell’è peraviso, che no è altro se non Deo divisare. ’Ntra viso – e peraviso – no è diviso, che non è altro che visare in viso: però mi sforzo tuttora visare. [E] credo per aviso – che da ‘viso’ giamai me’ non pos’essere diviso, che l’uomo vi ’nde possa divisare. PARAFRASIlo vedo, ma sono lontano dal viso (dell’amata); ma a mio avviso (per la mia convinzione) sono convinto di vederlo bene però la mia visione è lontana dal volto dell’amata (dunque come tale è sottinteso fallace, passibile di errore) che una cosa è la visione diretta, un’altra è l’elaborazione che del pensiero si fa di una cosa ” “ Su questa via giunge fino alla più goffa espressione di una maniera falsa e affeGata ” (l’ affettazione si fa quando siamo di fronte a qualcosa che ci sembra falsa). “Goffaggine”, “maniera falsa e affettata”: ecco come lo ha stroncato. La tendenza alla stroncatura accompagna un po’ tutta la poesia siciliana, salvando soltanto qualche testo che

Sul Cavalcanti , infatti dice che è “il primo poeta degno di esser chiamato tale” degno di questo nome, De Sanctis ha giudizio positivo. È una figura che coniuga in sé poeta e artista. Anche qui però De Sanctis sconta un pregiudizio di carattere romantico che spesso porta a privilegiare quella poesia che sembra avere “un che di ingenuo”, in cui si avverte un reale trasporto interiore che spesso viene abbinato a una forma semplice. È un pregiudizio che però non tiene conto del fatto che anche la forma più semplice richiede un artificio, cioè anche quella poesia che sembra la più semplice, più immediata nella forma (es. Saba, Sandro Penna) richiede un lavoro dietro i testi per riuscire ad arrivare a quella forma finale. Quindi anche l’apparente semplicità della forma, può celare un artificio, cioè uno scrittore che lavora allo scopo di ottenere quell’effetto; dunque una cosa che sembra venuta fuori spontanea e di getto, in realtà non lo è affatto. Il giudizio sul Cavalcanti quindi è un po’ preso dal suo pregiudizio romantico, innanzitutto per la positività nel dire che è il “primo poeta italiano degno di essere chiamato tale” Per parlarne di Cavalcanti parte dalle terzine dantesche (C osì ha tolto l’uno all’altro Guido / la gloria della lingua ) in cui vengono messi a confronto Cavalcanti e “l’altro Guido” (che alcuni intendono con Guido Guinizzelli e Guido Cavalcanti, mentre per altri sono da leggere come Guittone d’Arezzo e Guido Guinizzelli). In quei versi si parla della gloria della lingua che “un Guido avrebbe tolto all’altro”. De Sanctis si spinge oltre dicendo che Cavalcanti non voleva solo la gloria della lingua ma anche quella della filosofia. Voleva esser considerato filosofo toto cielo e di questa attitudine di Cavalcanti filosofo la tradizione è piena, si pensi alla presenza di Cavalcanti in una delle novelle del Decameron di Boccaccio. Cavalcanti farà il filosofo nella famosa canzone Donna me prega in cui ritorna sulla teoria della natura dell’amore (anche Guinizzelli aveva riflettuto sulla natura dell’amore e in particolar modo sul legame tra amore e cuore nobile, qui Cavalcanti invece, espone le caratteristiche dell’amore). De Sanctis dice su Cavalcanti che se da un lato voleva esser considerato filosofo, dall’altro non poteva essendo più che altro un divulgatore di filosofia , in quanto non esprimeva delle idee proprie, ma riprende teorie legate all’ambito aristotelico e soprattutto alla componente averroistica. Tra l’altro questo suo testo non è uno dei migliori perché di fatto è così impervio che di fatto ha bisogno di commentatori per essere compreso alla pari dei grandi testi filosofici, per cui abbiamo commenti, ad esempio, alla poetica di Aristotele. Allora dov’è, secondo De Sanctis, che Cavalcanti diventa veramente poeta? Lo è quando, suo malgrado quando allenta i vincoli della tecnica e del voler strafare contenutisticamente, dal punto di vista filosofico e si abbandona al canto fine a sé stesso, perciò il Cavalcanti prediletto da De Sanctis è quello delle ballate, quello fatto di musicalità immediata e pieno di grazia. Lui in particolare cita due testi “Perché io non spero di tornar giammai”, che è anche noto come ballatetta (ballata, accompagnata da un pregiudizio romantico da parte di De Sanctis secondo il quale Cavalcanti l’avesse scritta quando era in esilio a Sarzana e presentiva la morte. Dunque questo testo ha secondo D.S presenta quella malinconia che avverte la vita che finisce; cioè è un canto he non ha sovrastrutture. Gli altri testi sono le “Frosette”, noti come “Fresotte”, cioè testi dedicati alle contadinelle, oppure la famosa “Pastorella”, che è un testo che si rifà al genere della pastorella, genere lirico della poesia provenzale. Dunque si ha un aristocratico che nei boschi o nelle campagne incontra la pastorella leggiadra, la corteggia e alla fine lei cede. È un genere leggero, caratterizzato dalla grazia, malizia. Ed è proprio quello che accade in questo testo. Questo testo, inoltre rientra nel genere della poesia comico- realistica. (Cavalcanti era sposato con Beatrice o Bice, figlia di Farinata degli Uberti. Il fratello di Bice si chiamava Lapo degli Uberti, il quale si dilettava anche lui con questi canti delle pastorelle).

soprattutto quell’idea del base tipica del medioevo che trova espressione nel “ De contemptu Mundi ” e che ritroviamo spesso nella poesia iacoponica, riguardante il fatto che il nostro passaggio sulla terra è un transito e che la vera vita è quella oltremondana. Dante ne risente di questo tipo di visione della realtà, anche se poi e D.S dice che la sua opera ha un tale senso del reale che di fatto spesso, tale senso del reale devolva e li secondo D.S si hanno le prove migliori di Dante, cioè quelle dell’Inferno. Nella Vita Nova abbiamo, di fatto il canto di un amore giovanile che è spesso, com’è tipico degli amori giovanili, è più nell’immaginazione che nel cuore, è più un fantasma che creiamo piuttosto che realtà concreta, un’incarnazione del fantasma del desiderio (così lo definisce D.S). In un passaggio bellissimo D.S disse “ Beatrice morì angiola prima di nascer donna ”, l’amore che Dante rimase un sogno, un sospiro e di fatto è un amore che non ha una valenza completa. Le interazioni tra Beatrice e Dante sono labili e rarissime, simili a quelle della scuola elementare e in effetti Dante dice di averla conosciuta a nove anni. Nella labilità di queste interazioni, alle volte, si può notare l’effetto della scuola, si sente il prevalere dei cavilli filosofici, dei cavilli retorici e talvolta si vede anche qualcosa di grottesco, ma ci sono anche momenti in cui se è vero che Beatrice non ha una consistenza tale da attrarre l’amato verso sé, come accadrebbe in un amore concreto in cui la forza della sensualità è tale che tira l’altra persona totalmente verso l’amata. Beatrice non ha questa consistenza reale, concreta, ma ha comunque abbastanza presa sul cuore di Dante da influenzare la sua immaginazione ed è in quei momenti in cui tu avverti, dice D.S, proprio questa partecipazione sentimentale di Dante, che lo vedi “mettere da parte il cappello da retore e lo senti parlare da poeta”. Il passaggio in cui avviene questo passaggio e Dante mette da parte il cappello da retore e canta Beatrice è “ Tanto gentile e tanto onesta pare”. Qui scrive: “ Beatrice morì angelo prima che fosse donna e l’amore non ebbe tempo di divenire una passione, come si direbbe oggi, rimase un sogno ed un sospiro e li coesiste e si confonde con l’ideale dell’oratore, l’ideale del filosofo e l’ideale del cristiano, mescolanza fra perfetta buona fede e perciò grottesca certo, ma non falsa e non convenzionale… pare ” (16:00). Da un lato dunque abbiamo una creatura femminile, Beatrice, che è una creatura sbilanciata nella sua rappresentazione sul versante ideale; una creatura che risente dell’ideale del trovatore, del filosofo e del cristiano, laddove in Beatrice si trova il retaggio della poesia d’amore delle origini, con tutte le sottigliezze del carattere provenzale. Ad esempio l’episodio del Gabbo era tipico della poesia d’amore, laddove la donna amata deride il poeta (cioè il gabbo), però il gabbo è incongruo rispetto alla gentilissima Beatrice, cioè non si sposa bene con l’indole di questo personaggio, proprio perché in questa creatura coesistono degli elementi artificiosi legati alle sue reminiscenze poetiche (di Dante) o per i suoi studi, perché il padre di Dante è un filosofo e parla dell’ideale del filosofo o dell’ideale del cristiano, cioè di quella tendenza, da un lato a spiritualizzare l’amore verso Beatrice, dall’altro ad avvilupparlo in una foresta di simboli legati alla scolastica e agli studi filosofici e ancora d’altro canto la tendenza alla mistificazione di Beatrice, perché a tratti questo processo di mistificazione. Tuttavia seppure la creatura non abbia questa forza passionale tale da tirare l’amante tutto a se, ha abbastanza forza e presa su di lui da muovere la sua immaginazione e il suo cuore. In quel momento si avvertirà la sincerità del canto e si sentirà meno la scuola, anche se comunque il testo di “ Tanto gentile e tanto onesta pare” è lavoratissimo, tanto che noi pur non avendo autografi danteschi, abbiamo notizia di varianti di questo testo, come “ Par che sia, che prima era, credo che sia”. Poi, nel momento in cui questa creatura muore, lui sente venir meno quello che era il fondamento stesso della sua vita e del suo canto; questo evento lo turba molto e paradossalmente la figura di Beatrice sembra acquisire più forza e più grinta nel momento in cui lui ripensa a lei da morta. Questa è una caratteristica che D.S riscontrerà anche in Petrarca. Le figure di donne sfuggenti in vita trovano più riscontro dopo la morte. Anche qui, però finirà con il prevalere l’influsso culturale, l’influsso filosofico e l’influsso cristiano e dunque Dante finirà con l’allegorizzare la figura di Beatrice, facendo di lei, dice D.S, la “ bella faccia della sapienza ” e questo si ritrova nel Convivio e facendo di lei la “teologia” e questo lo si trova nel Paradiso della Commedia, laddove però nel Purgatorio si trova Beatrice come creatura che ha una forza estrema ( nel XXX canto del Purgatorio Beatrice aggredisce Dante e lo spinge quasi alle lacrime). Per De Sanctis, l’allegoria deve essere vita e se lui in quella allegoria non sente la vita della figura rappresentata, per lui non ha grande valore dal punto di vista poetico. Per quanto riguarda la Commedia abbiamo l’espressione del percorso dell’individuo che da carne lo porta a spirito. Abbiamo un regno, l’Inferno, con vita più materica e corpulenta, quindi una poesia più efÏcace ed immediata, ed un progressivo smaterializzarsi dell’individuo che trova il suo punto di transizione nel

Purgatorio e il suo compimento nel percorso che lo porta a spirito nel Paradiso. Molto interessanti sono le osservazioni che De Sanctis fa sul concetto di brutto della Commedia, osservazioni che ci dicono molto dal punto di vista estetico. Nell’Inferno abbiamo la rappresentazione di quegli individui in cui nel contrasto tra carne e spirito, tra ragione e senso hanno visto il prevalere dell’uno sull’altro, hanno agito o in preda agli istinti o comunque non operando per il bene. È chiaro che l’Inferno è quel regno in cui la materia è abbandonata a sé stessa e alle proprie leggi, non regolata dallo spirito. Questo diverrebbe proprio il terreno di coltura del brutto da un punto di vista estetico, perché se pensiamo a ciò che rende rappresentativo del concetto abbiamo dinnanzi a noi l’immagine del diavolo, mai rappresentati in forme attraenti. Basti pensare alla figura di Lucifero che Dante rappresenta in fondo all’Inferno. Però sbaglieremmo se pensassimo che il brutto non possa trovare cittadinanza nell’arte, anzi è l’esatto contrario. Una cosa è il brutto dal punto di vista morale e spirituale, un’altra è ciò che è brutto dal punto di vista estetico. Anche il brutto può dare vita all’arte. Ciò che nella realtà è brutto, nella rappresentazione artistica diventa bruttissimo (es: Giardino dei mostri di Bonazzo, in cui la bellezza è ottenuta attraverso la rappresentazione del brutto, perché infine ciò che noi consideriamo brutto non è ciò che lo è nella realtà, ma in arte il brutto è tutto ciò che non ha vita e che è tratteggiato in maniera caotica). Ecco perché spesso per spiegare la Commedia De Sanctis chiama in causa la categoria del sublime negativo , quello che nasce dalla negazione. Lo riavvisa negli ignavi , in sé creature poco poetiche a causa della loro mancanza di forza e di vita, caratteristiche che paradossalmente nella poesia di Dante li rende poetici e da luogo ad alcuni dei versi più belli che Dante abbia mai scritto, come la terzina che sfocia nel “ Non ragionar di lor ma guarda e passa ”. La forza poetica dell’Inferno risiede nel fatto che Dante diventa, come dice D.S, “ il ponte gittato fra il regno dei vivi e il regno dei morti ”, Dante è come un reagente chimico all’interno della Commedia; il passaggio di Dante, in particolare nell’Inferno fa si che i personaggi risentano e rivivano quello che è stato il loro percorso terreno e lo rivivono quasi cristallizzate in un’emozione, in un sentimento, che non si è risolto perché è diventato il mantra della loro vita. Dunque succede che il passaggio di Dante nell’ultramondano e in particolare nell’Inferno fa sì che “ nell’eterno ricomparisce il tempo”, cioè lui porta sé stesso con passioni da uomo vivo e ciò porta a risvegliare ciò che in quel momento è silente e a prorompere. È il ponte (come dice D.S), un reagente chimico, tra il mondo dei vivi e dei morti. -De Sanctis si pone una particolare domanda nel saggio presente sul Tellini: si chiedeva se Dante, per trattare la realtà del suo tempo, abbia ritenuto la materia dell’ultramondano come più adeguata oppure il contrario e quindi se la scelta di trattare la materia dell’ultramondano gli abbia fatto ripensare alla realtà del suo tempo? In altre parole, è nata prima l’idea di parlare del suo tempo e per farlo ha scelto quella materia (quindi il viaggio ultraterreno) oppure ha scelto prima quella materia e ha notato che era adatta a cantare il suo tempo? È una domanda alla quale non potremo mai rispondere. Quello che è certo è che nella Commedia Dante trasporta nei tre regni ultramondani non solo sé stesso ma anche il suo tempo, la sua epoca, i suoi papi, imperatori, comuni, con tutte le problematiche che l’hanno caratterizzata per cui ci troviamo di fronte ad un risultato curioso. Per cui ci troviamo di fronte ad un risultato curioso perché abbiamo il mondo terreno a lui contemporaneo e passato visto dall’aspetto dell’aldilà e allo stesso tempo anche un aldilà visto fortemente dalla terra e che nell’immaginario di quel periodo risente in maniera fortissima. Un esempio sono le similitudini tratte dalla natura; per lui nel Paradiso, queste similitudini, fatte dal mondo naturale, hanno un effetto più importante perché tendono a prendere la materia meno astratta (38:00). Di fatto quando Dante si trova a spiegare il fenomeno complesso spesso lo spiega ricorrendo ad immagini terrene; per esprimere la sparizione delle anime (es. Piccarda) lui trova come termine di paragone un oggetto pesante che nell’acqua svanisce. Dunque “ è l’altro mondo visto dalla terra ” perché per dare voce all’indicibile lui si serve di una serie di immagini e similitudini che lui trae dal mondo terreno e spesso sono quelle similitudini a salvare dal rischio di eccesso di astrazione, che nel Paradiso si avverte fortemente. -Uno dei punti di forza di quest’opera ed in particolare dell’Inferno è il fatto che nell’oltremondo anche le creature terrene più ignobili e miserabili , proiettate sul piedistallo dell’eternità, acquistano una dignità e una forza poetica che nella realtà non avrebbero mai avuto (es. Ciacco). Anche quella che è la realtà, con tutto il suo portato di meschinità, finisce proiettata in quel palcoscenico ideale con l’assumere un valore altissimo dal punto di vista poetico. Secondo la visione che D.S ha, emergono come canti meglio riusciti quello degli incontinenti, perché in queste

PURGATORIO

De Sanctis avversa il concetto che si debba svalutare il reale per tendere verso l’oltre mondo. L’Inferno appare corpulento, barbarico e tempestoso, mentre il Purgatorio ha un andamento più idillico rispetto all’Inferno; infatti Dante trova come figura caratteristica di questo mondo proprio l’uomo tranquillo, che forte della sua calma interiore e della sua fede riesce a purificarsi e a rendersi degno delle gioie del paradiso. Per cui, di fatto, la calma interiore sembra la caratteristica che accomuna i personaggi di questa cantica; non è un caso infatti, che Dante, in questa cantica abbia insistito, più che nelle altre sul tema dell’amicizia. Nel Purgatorio Dante si circonda di amici. Si veda il suo incontro con Casella, rappresentativo di questa idea (qui si vede la tensione nel voler abbracciare l’amico che poi si risolve nel topos tipico dell’anima che nella sua evanescenza non può essere abbracciata) o Forese Donati. Si vede il trasporto ideale che ha verso la figura di Virgilio o ancora troviamo il riconoscimento di quelli che sono stati i suoi punti di riferimento dal punto di vista poetico, come Guido Guinizzelli (“il padre mio”: punto di riferimento di quello che verrà definito qui da lui Dolce Stil Novo, ma che lui applicherà facendo riferimento a sé stesso e alla propria poesia, in particolar modo a “Donne, voi ch’avete intelletto d’amore”). Dunque il purgatorio ha un andamento molto differente rispetto all’Inferno, che ha come immagini il sogno, la visione, le rappresentazioni delle virtù premiate e i vizi puniti. È la cantica dell’arte , fortemente presente, che sia il figurativo, il miniatore. Si ha anche una particolare attenzione agli affetti familiare, che non aveva particolare forza nell’Inferno o se l’aveva era sempre dirompete, con dei risvolti anche distruttivi. Invece nel Purgatorio i legami familiari sono forti nel Purgatorio, tanto è vero che complice sicuramente il fatto che il periodo da trascorrere in Purgatorio si riducesse con l’intervento delle preghiere dei vivi a sostegno dell’animo del Purgante, è un dato di fatto che quasi tutte le anime del purgatorio invitano Dante a ricordarlo a qualcuno che era ancora vivo; per cui questa preghiera gliela fa Manfredi, che ha una grande forza interiore ed una pace in sè, anche nel momento stesso in cui mostra le sue ferite, lo fa senza alcuna rabbia; è una figura gentile, come la definisce Dante. Ogni anima dunque ha un piccolo santuario domestico che mantiene vivo nel proprio cuore e chiede a Dante di essere ricordato ai vivi, un po' perché c’è questo elemento, cioè la preghiera dei vivi soprattutto se poi riduce la permanenza nel purgatorio, ma anche perché effettivamente in questa cantica gli affetti familiari hanno una forte incidenza. D.S a tal proposito riflette su un personaggio che non ha nessuno da cui essere ricordato, cioè Pia dei Tolomei. Dunque vediamo che l’immagine che Pia prospetta è in quella gemma, cioè in quel simbolo di un patto che diventa un vincolo coniugale, che da qualcuno è stato tradito, ma da lei no e quindi Pia che non ha nessuno a cui poter chiedere di essere ricordata, chiede a Dante di ricordarsi lui di lei, quando si sarà riposato dal lungo viaggio dice “ ricorditi di me che son la pia ”. È la cantica della malinconia , definita da De Sanctis come “ il dolce dolore ”, un dolore non proprio straziante e lacerante, ma che, pur facendoti soffrire, ti culla. Non a caso ci sono persone che hanno temperamenti malinconici e sono quelle persone che non si vedono mai felici, mai totalmente tristi, ma passano da questa condizione apparente di serenità ad un dolore che però è dolce e quasi neanche inavvertibile, perché non è un dolore lacerante. Di fatto il Purgatorio è così, perché da un lato si sente si sente un’energia forte che è finita, di un legame forte con la terra che non è stato ancora completamente reciso, perché queste anime si stanno purificando e non si sono completamente purificate, non sono ancora pura spiritualità nel loro sentire; risentono ancora di questo legame sulla terra, ma è un legame che tengono a distanza; non è più lo strazio che abbiamo sentito in Francesca, che soffre ricordandosi del tempo della felicità, ma è un dolore dolce, è malinconia. De Sanctis inoltre, osserva che quelle che sono le varie rappresentazioni del giorno e della notte, tipiche della commedia finalmente vengono liberate dalle perifrasi astronomiche e dalle immagini astruse si sente la malinconia di Dante che ha detto addio ai propri cari, cioè si avverte quel senso di elegia (1:11) di qualcosa che finisce, di qualcosa che magari deve anche incominciare, ma che in qualche modo non essendo in atto non è ancora una realtà e dunque rimane un’incognita.

PARADISO

Nel Paradiso, invece, abbiamo questo processo per cui siamo arrivati alla purificazione e dunque le forme di questa cantica sono la luce, l’armonia musicale e la visione. L’elemento costante è l’intelletto d’amore , cioè quella visione intellettuale che è allo stesso tempo comprensione, mistero, che poi porta ad amare. In effetti uno degli elementi di Dante nell’Ottocento è quello dell’intelletto d’amore, che ritroviamo in buona parte della letteratura, soprattutto di ambiente cristiano dell’800 ed è molto presente nella letteratura femminile, cioè le donne che aderiscono al femminismo, ma di area cristiana, amano definirsi unite da questo legame dell’intelletto d’amore, che è una ripresa dell’intelletto d’amore dantesco. Tutto questo rischia e di fatto porta

a questo di produrre una maggiore astrazione e quello che spesso salva in questa poesia che potrebbe tradursi in astruserie e sottigliezze teologiche è proprio il momento in cui la terra entra nella cantica. Non a caso si è fatto l’esempio delle similitudini che spesso, quando la scrittura si fa impervia ti aiutano a visualizzare delle immagini che altrimenti non visualizzeresti. È chiaro che D.S non dice espressamente che questa poesia sia meno efÏcace di quella delle cantiche precedenti, certo dice che si tratta di cantiche (Purgatorio e Paradiso) che hanno una vita meno intensa, è una poesia diversa, che trova nell’armonia, nella visione, nella luce e nella musica, la sua forza, la quale è sbilanciata più sul versante dell’ideale che del reale e che è in linea con l’allegorismo, con il misticismo, con lo scolasticismo. PETRARCA Il giudizio di De Sanctis è ambivalente: da un lato si riconoscono dei pregi, dall’altro difetti e limiti, per lo più morali e caratteriali del Petrarca stesso e non della sua poesia in sé. Parte paragonandolo a Dante che eleva Beatrice nell’universo, del quale si fece coscienza e voce. In Petrarca avviene l’opposto ovvero egli cala tutto l’universo in Laura e fece di lei e di sé il suo mondo, la sua vita e la sua gloria. Beatrice, incontrata nel Paradiso terrestre, diventa colei che accompagna nell’ascesa paradisiaca Dante, che assume delle valenze allegoriche che sono state vagamente interpretate. Di fatto, però Dante eleva Beatrice nell’universo e ne fa quasi la figura chiave in una sua ipnosi personale, come rileva un critico. Dunque di quell’universo in cui eleva Beatrice, lui si fa coscienza e voce, perché di fatto nell’opera dantesca si trova una possente sintesi di quella che è un’epoca. Invece Petrarca fa il passaggio opposto, cioè cala il mondo in Laura e fa di lei e di sé il suo mondo, di Laura, ma anche di sé stesso. “Pare un regresso invece è un progresso ” perché seppur il mondo di Petrarca sia un frammento rispetto alla vasta sintesi dantesca, però in quel frammento c’è un mondo, cioè è un frammento così compiuto in sé che non è da meno di quella sintesi dantesca. Il punto di vista di Petrarca è diverso, è diversa l’intenzione della sua opera. Qui Beatrice è diventata Laura ed è stata sviluppata (cioè liberata dal quel viluppo) dal dover essere partecipe delle diverse cose e dal dover diventare portatrice di verità filosofiche e teologiche. Dunque quella che era Beatrice avviluppata in Dante in queste astrazioni filosofiche, ora sviluppata\ liberata da quel viluppo, diventa Laura della sua chiarezza e personalità di donna. È come se il Canzoniere ci conducesse per mano nel tempio dell’anima umana. Detto così, sembra un elogio strabiliante di Petrarca ma non è proprio così. De Sanctis riconosce che, così come nella Commedia , la teoria è sempre quella ovvero che la donna è “scala al Fattore”, ovvero che è intermediaria tra Dio e l’uomo. Questo concetto ritorna anche qui, infatti Petrarca fa fatica a convincerci e a convincersi che lui è attratto dalla spiritualità di Laura, ma sostanzialmente di lei gli piacciono i capelli ( i capei d’oro d’aura sparsi ), il bel fianco e tutto ciò che chiaramente ci descrive in Chiare, fresche e dolce acqua. È Laura donna che muove il suo cuore e la sua immaginazione Laura è una creatura ben individuata? Così e così. De Sanctis osserva effettivamente che sicuramente è una figura che ha una chiarezza e una personalità di donna superiore rispetto a Beatrice, però è ancora più vera, con delle caratteristiche ben individuate. Potremmo dire che è Donna con la D maiuscola, rappresentante del genere femminile. Più che in Dante. È Laura che permette a Petrarca di esprimere il sentimento della bella donna e della bella natura che si esprime attraverso le belle forme, perché il sentimento della bella forma in Petrarca è un fattore fondamentale più che in Dante, tanto è vero che il culto della bella forma ha le sue radici nella poesia di Francesco Petrarca, cioè la bella donna, immersa nella bella natura espressa attraverso la bella forma. Ma non dobbiamo pensare di chiedere a questo essere che lui definisce “muto e senza espansione, le caratteristiche che ci aspetteremmo da un personaggio femminile chiaramente individuate. Laura di fatto è la creatura più concreta che quel tipo di poesia, in quell’epoca (medioevo), poteva arrivare a scrivere. Anche lei, come Beatrice, trova il suo pieno compimento nella morte, infatti a tratti, soprattutto nella parte della sezione “in vita” abbiamo delle “insipidezze” (come le chiamava D.S) che ogni tanto caratterizzavano la poesia che risentiva dei trovatori francesi. Tuttavia ci sono certe immagini di Laura che la rendono vivissima, una su tutte è la canzone delle Metamorfosi. In uno di questi passaggi lui compie il peccato di Atteone, noto come Atteone il guardone, che spia la dea Diana mentre sta facendo il bagno nuda con le sue ninfe e questi viene metamorfosato in cervo, poi sbranato dai suoi cani che, non riconoscendolo si avventarono su di lui. Lui rappresenta un momento in cui sta guardando l’amata e qui si capisce che è Laura e non una delle altre pastorelle di altri testi. Lui la sta guardando mentre si lava, lei si accorge di questo e fa quello che farebbe una donna vivace e piena di spirito, cioè comincia a schizzargli l’acqua addosso. Questa è una sequenza vivissima,

assolverlo e quindi finirà comunque in terra sconsacrata e noi saremo comunque linciati. Ciappelletto dunque dice hai suoi ospiti per rassicurarli che si sarebbe confessato e avrebbe raccontato tutto, perché tanto ha detto così tante menzogne in vita sua, una più una meno non cambierà la sua sorte. Ciappelletto non crede nell’esistenza di un paradiso, pene o castigo, dunque dire una bugia ad un confessore in punto di morte non è nulla. Dunque arriva questo frate venerabile a cui lui rende una falsa confessione in cui con molta abilità alcune cose le inventa, altre le dissimula. Alla fine dall’essere deputato un gaglioffo, viene addirittura santificato, viene sepolto nel cimitero adiacente al convento e addirittura la gente comincia a rivolgergli preghiere, ad usare le sue vesti come reliquie e addirittura per sua intercessione avvengono miracoli. Questo è il Ciappelletto di Boccaccio, che D.S mette a confronto con il Tartufe di Moliere, una piece di Moliere, che racconta la storia di un falso devoto che si insinua in una famiglia, carpisce la fiducia del pater familia e genera zizania per arricchirsi e per esercitare il suo potere su quelle persone. In entrambi i casi ci troviamo di fronte ad immagini di falsa devozione, la differenza è che però mentre Moliere mostra un tale disgusto verso quella figura del falso devoto che si studia tutti gli strumenti per farcela odiare e si sente in Moliere la satira contro una determinata categoria sociale; secondo De Santis questo non avviene nel testo di Ser Ciappelletto che appare un testo estremamente ambiguo, tanto che ci sono critici che lo hanno letto come l’elogio dell’artista della beffa e realizza nella beffa la sua opera d’arte e ci sono stati quelli che invece l’hanno visto come una rappresentazione di coloro che sono quelli della mancanza di scrupoli, la manipolazione della realtà, da parte di certa borghesia (1 ora 47) e c’è persino chi l’ha letto come una possibile espressione del trionfo di Dio, cioè è vero che un gaglioffo è stato creduto santo per effetto di menzogne, ma è anche vero che i miracoli avvengono. Cioè la vittoria finale non è di Ser Ciappelletto, secondo alcuni studiosi, ma è di Dio che riesce a servirsi persino di una creatura eticamente immonda per al centro della fede. Questo è possibile perché la posizione di Boccaccio nei confronti del protagonista di questa novella è ambigua. Quindi meglio vivere con la falsa credulità di chi lo santifica, che non criticare questa persona.

Lezione 3 del 5 ottobre ’23 OK

Telefono mamma VOCE 0023 e Tasso su Telegram Martina BOCCACCIO pt. Viene istituito da De Sanctis un paragone tra il Ser Ciappelletto ( Decameron , I, I) e il Tartufe, commedia tragica di Moliere. Secondo De Sanctis è diverso l’atteggiamento dell’uno e dell’altro. In Ser Ciappelletto, sebbene il discorso di Boccaccio sia costruito sull’ambiguità, per cui alcuni critici vedono comunque una condanna per quanto velata di Ser Ciappelletto altri, invece, vedono in lui l’artista della beffa (tra questi Croce). De Sanctis, tuttavia in Ser Ciappelletto non vede da parte di Boccaccio una condanna decisa rispetto a questa figura di gaglioffo e ipocrita, quanto più il sorriso rispetto alla credulità del frate da un lato e nel popolo dall’altro che finisce per santificarlo. Laddove in Molière prevaleva la volontà satirica che portava a farne un ritratto odioso di questo personaggio, in Boccaccio, secondo lui, prevale l’allegra caricatura. De Sanctis dice che “ Boccaccio è il Voltaire del secolo decimo quarto ” e con ciò capiamo subito dove voleva andare a parare. Voltaire tra le sue oscure opere, fu autore del Candide , (il “Candido”), romanzo filosofico molto breve in cui si prende di mira l‘ottimismo metafisico o dogmatico leibniziano e lo fa creando il personaggio di Pangloss, precettore del protagonista Candido. Secondo l’ottimismo metafisico noi viviamo nel migliore dei mondi possibili e se le cose avvengono in un certo modo è perché sono preordinate verso un fine, che è il miglior fine possibile. Questa teoria viene sostenuta da Pangloss, che è l’istitutore del giovane Candido, il quale non fa che ripetere a Candido, ma anche ai suoi interlocutori, come un mantra la frase “ tuGo è al meglio nel migliore dei mondi possibili ”; di fatto però ciò che Pangloss asserisce con tale convinzione, viene continuamente smentito nella realtà dei fatti in una sarabanda di situazioni divertenti che vedono i due Candido e Pangloss) continuamente asserragliati dalla sfortuna più nera, per cui il loro mantra viene smentito in tutto e per tutto. Tanto che nel romanzo appare un altro personaggio che invece incarna un pessimismo senza speranza. Perché quindi De Sanctis ci dice che Boccaccio è “il Voltaire del secolo decimo quarto”? Ciò che unisce questi due autori è l’ allegra caricatura , cioè il mettere alla berlina attraverso il sorriso dietro il quale tu non cogli l’acredine, stizza (come con Il Giorno di Parini) ma è un ridere di quelle che sono le miserie umane, ma con uno sguardo da un lato è impietoso e dall’altro non carica troppo la mano, non ricade nel sarcasmo. De Sanctis ha un po’ questa immagine di Boccaccio che chiama “ Giovannino della tranquillità ”, una persona idillica, perfettamente inserita nel suo mondo , non corruttore dei suoi tempi, perché erano i suoi tempi ad essere corrotti e lui respirò la corruzione morale di quell’epoca, ma non fu lui a corrompere quel secolo, perché altrimenti, dice D.S, quando lui scriveva determinate cose, se quella corruzione non fosse stata dominante nello spirito generale, ci sarebbe stata una viva insurrezione verso quello che lui scriveva, invece così non è stato. Boccaccio che non guarda il mondo da una prospettiva di superiorità ma è immerso nella società. Un uomo senza idealità morali superiori alla media. Quando vuole dipingerci la virtù lo fa con toni da meraviglioso, rendendola di fatto poco credibile. Noi abbiamo due tipologie di virtù rappresentate nell’opera di Boccaccio, quelle virtù cavalleresche o virtù legate alla cortesia che emergono in personaggi come Federigo egli Alberighi, rispetto al quale ci rendiamo conto che seppur Boccaccio ammira la sua cortesia e la sua devozione cieca ad una donna, dall’altro mette in evidenza un limite di Federigo, che è quello di non saper fare masserizia tanto è vero che il lieto fine della novella ci riporta un Federigo sposato con la donna che amava. MASSERIZIA: concetto tipico dell’economia dell’epoca consistente nell’essere in grado di acquistare quelli che sono i propri beni, di accrescerli o quanto meno di non dilapidarli, cosa che Federigo non era in grado di fare, perché per mostrare la sua devozione a Monna Giovanna finisce per essere povero in canna, tanto che quando lei va a pranzo da lui, l’unica cosa che può fare è imbandirle le carni del suo falcone. In questa maniera non è in grado di fare per lei l’unica cosa che lei davvero voleva che lui facesse, il paradosso di Federigo.

sempre come sensuale nelle novelle di Boccaccio entra in contrasto con una società che dice che Lisabetta non può sposare Lorenzo, Ghismunda non può sposare Guiscardo perché sono figure che da un punto di vista sociale non sono alla loro altezza. Dunque queste tragedie perché loro hanno infranto un codice di tipo sociale. Non a caso tra le letture che vengono date del Decameron sono anche letture di ordine sociologico. Il 400 Il giudizio desanctisiano sul 400 è riduttivo e molto duro. Emblematica è la sua stroncatura di Poliziano, ma ce l’ha anche con i vari Sannazzaro e Pontano. Nel caso di Poliziano gli rimprovera il fatto che se l’opera di Dante poteva paragonarsi a un tempio gotico pieno di luci e opere, se l’opera d’arte di Petrarca poteva paragonarsi ad un tempio greco nella sua armonia, quella di Poliziano è un tempio vuoto in cui penetra Apollo e vi porta il culto delle forme. Ciò significa che Poliziano è uno di quei tasselli del percorso dell’ideale che a poco a poco va scemando a forza magari anche di una crescita della tensione verso il reale, ma anche con l’effetto sgradevole (per persone come D.S) di esaltazione della forma a discapito del contenuto. L’opera che D.S prende di mira è la Fabula di Orfeo. De Sanctis non l’aveva proprio capito Poliziano e di quest’opera non riesce a coglierne la problematicità. A volte ci sono autori che sono lontani dalla nostra sensibilità, in particolare la sensibilità di D.S era quella di un uomo pregno di amor patrio, di ideali romantici. Bisogna anche inquadrare il critico per capire anche i suoi giudizi/pregiudizi. Poliziano, da una parte presenta una forma delicata e armoniosa, d’altro canto ha il difetto però di essere troppo legato al mondo delle corti, verso cui D.S nutriva i suoi pregiudizi; ha un immaginario mitologico, il quale non poteva essere visto di buon occhio da De Sanctis. Lui dell’opera dell’Orfeo non riesce a cogliere la problematicità , perché se volessimo cogliere e commentare la problematicità dell’Orfeo ci sarebbe materia in abbondanza. In quest’opera si ha da un lato lo scarto della poesia, cioè il cantore poetico può anche con il suo canto riuscire a persuadere i reali\gli dei del regno dei morti e a riportare indietro Euridice, ma non potrà mai sconfiggere le proprie ombre ed inquietudini, perché alla fine è l’inquietudine di Orfeo e l’insicurezza rispetto al potere del sacro che lo porta a voltarsi indietro e ad andare verso sua moglie. In fin dei conti, il teatro profano italiano nasce all’insegna di un giovane uomo, Orfeo, che nel finale dell’opera fa una dichiarazione esplicita di coming out, cioè di amore omosessuale e nel momento stesso in cui viene fuori dichiarando questo, subisce la punizione e viene dilaniato dalle Baccanti. Quindi non si può far a meno nella valutazione di un’opera degli elementi biografici sparsi qua e là, in merito ad una presunta e mai chiarita omosessualità di Poliziano, perché verrebbe da dire che magari al cantore Orfeo si possa sovrapporre un giovane uomo, Poliziano, con tutte le sue pulsioni, che in quel momento si sente anche un inetto di fronte alla società e nel momento in cui viene scoperto verrà distrutto. Tutto questo D.S non lo comprende, ma dell’opera ne scrive una stroncatura che è più bella di un panegirico. Volendone affermare l’inefÏcacia di quest’opera finisce per descriverne il fascino, perché ti trovi nel mondo dell’immaginazione , in cui la corte 400esca riconosceva sé stessa, il quale è pervaso da un dolce lamento che però non ti turba ma ti lusinga e accarezza ( 1 ), perché è il miracolo della forma di Poliziano. Ad un certo punto, però questo mondo dell’immaginazione e dell’arte è disfatto ( 2 ) e ti ritrovi nel bel mezzo dell’ebbrezza dei sensi e di un coro orgiastico , cioè il coro delle Baccanti ( 3 ). Quindi un passaggio che va dall’idillio, all’elegia, fino al coro orgiastico. D.S dice che Orfeo è un personaggio sfuggente , egli penetrare nel suo animo, ma sfugge esattamente come Euridice, rappresentate di fuga, la quale fuggendo viene morsa da un serpente e muore. Però l’essenza di Orfeo è altrettanta sfuggente rispetto a quella di Euridice. LETTURA PASSI (48 min): “ è un mondo che non ha altra serietà se non quella che gli da l’immaginazione. Le passioni sono emozioni, gli avvenimenti sono apparizioni, i personaggi sono ombre, la vita danza e canta e non si ferma e non puoi fissarla ” Posto che è vero che le passioni sono emozioni, perché non trovi in quest’opera l’espressione di una passione rovente; è vero che gli avvenimenti sono apparizioni ed è vero che i personaggi sono ombre. Ma la domanda che ci si pone a questo punto è “ non sono ombre gli esseri umani stessi ?”. E nel momento in cui mi dici che “la vita danza e canta e non si ferma e non puoi fissarla”, allora si può dire che l’uomo, la donna sono qualcosa di così complesso, mutevole e magmatico, che è un po' una pretesa quella di voler fissare qualcosa. Cioè D.S volendo demolire l’Orfeo con queste parole, in realtà, ha espresso il suo fascino; cioè un’opera sfuggente e

ambigua, così come sfuggente e ambigua è la vita stessa dell’uomo. MACCHIAVELLI Ovviamente questo giudizio di D.S non riguarda tutti gli autori del 500 italiano; su Machiavelli, infatti, c’è una ferma positività. Da un lato in lui continua a procedere il percorso già visto con Boccaccio, con Lorenzo De Medici e con Luigi Pulci; infatti D.S ci dice che “ Belfagor, il diavolo di una famosa novella di Macchiavelli, in fin dei conti, è della stessa genia dell’Astarotte, che è il diavolo filosofo, più sensato degli esseri umani del Morgante di Pulci ”. La linea di pensiero, dunque è la stessa ovvero quella che ha demolito le grandi idealità del medioevo, cioè la cavalleria, l’amore platonico e l’oltre-mondo. Temi che in questo percorso pian piano vengono talmente decostruite al punto che in Machiavelli non hanno sostanza. D.S chiarisce che l’approccio all’opera di Machiavelli, secondo De Sanctis, è stato sbagliato. L’opera che ha catalizzato l’attenzione su di se, facendo dimenticare tutte le altre è ovviamente il Principe. Un’opera, però, di cui si è colta soltanto la superficie, che è stata condannata dai moralisti e se ne è fatta l’opera del “fine che giustifica i mezzi”, e di cui si sono fatte spesso letture fuorvianti o interpretazioni oblique , nelle quali rientrerà anche lo stesso Ugo Foscolo dei Sepolcri, in fatti questi parlando nella sua opera di Macchiavelli evidenzia come Machiavelli fingendo di dare consigli al perfetto principe, in realtà sta mettendo in evidenza le storture della monarchia, cioè ci sta mostrando quanto sangue e quanta sofferenza, questa istituzione provochi. Dunque D.S evidenza come il merito di Macchiavelli è che da un lato c’è in lui c’è la negazione di quegli elementi che erano stati i cardini del mondo medievale, ma la sua non era stata una negazione che si limita semplicemente alla pura e allegra caricatura ma la sua è una negazione seria ed eloquente, cioè laddove distrugge Machiavelli ricostruisce qualcosa; laddove nella letteratura precedente questa realtà veniva sminuita a livello di un’onda per cui tutta la tensione dell’uomo doveva convogliarsi verso l’oltre-mondo (da ciò nasce l’idea base della Commedia), adesso invece, la realtà proscritta reclama i propri diritti e lo fa in maniera netta, con la potente analisi di Niccolò Macchiavelli. De Sanctis evidenzia, da un lato, che tutto sommato Machiavelli non fosse un uomo di grande cultura. Nella sua opera, però, non ha né il volto estatico dell’uomo del Medioevo né quello idillico dell’uomo dell’Umanesimo/Rinascimento, bensì ha il volto serio e impegnato dell’uomo che sta costruendo qualcosa. Nella sua opera lui proscrive quello che era stato centrale precedentemente, cioè un mondo dell’immaginazione e lo fa a vantaggio della realtà. In effetti, il pensiero espresso da Il principe è legato all’idea di tener dietro alla realtà effettuale e non all’immaginazione delle cose. In questo è la sua NOVITÁ! Perché rispetto al Risorgimento (Rinascimento) lui non ha il culto della forma, secondo D.S; cioè non che la sua opera sia formalmente negletta, però quel culto che De Sanctis vedeva idoleggiato in Poliziano ha un ruolo marginale nell’opera machiavelliana, perché per Machiavelli bandire il mondo dell’immaginazione a vantaggio della realtà ha, secondo D.S due risvolti:

1. L’uno è bandire il mondo dell’immaginazione come religione ; non che si stia predicando l’agnosticismo o l’ateismo, sia chiaro, ma che non bisogna subordinare il calcolo attento della realtà a quelli che sono i valori che la religione prescrive (realtà, onestà, essere amato piuttosto che temuto, ecc…) perché ciò rischierebbe di portarci fuori strada. Il bandire il mondo dell’immaginazione come religione, con immaginazione s’intende l’andar dietro alle cose come dovrebbero essere e non come sono. Dunque la religione dice che il principe dovrebbe essere reale, onesto, esser religioso e quindi io principe devo adeguarmi a questi dettagli della religione, perché devo andar dietro all’immaginazione delle cose. Ma la realtà mi dice che se facessi tutte queste cose il mio principato durerebbe pochissimo 2. L’altro è bandire il mondo dell’immaginazione come arte , cioè come dedizione totale al culto della forma, un elemento non poi così determinante e necessario, che porta a privilegiare l’arte come fine del (1ora 02), non è questo però in Macchiavelli, diversamente dagli altri autori dell’umanesimo e del rinascimento. In effetti questo culto dell’arte era molto vivo in Ariosto.