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Riassunto diritto al lavoro e disabilità, pedagogia speciale (Marchisio)
Typology: Summaries
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Diritto al lavoro e disabilità Elementi introduttivi Nel dibattito contemporaneo il discorso sul lavoro per le persone con disabilità verte nella maggior parte dei casi attorno al COME. Ci si domanda quale sia il metodo più efficace per accompagnare al lavoro le persone con disabilità, si conducono a ricerche per determinare se l'attuale legislazione sia funzionale, si interrogano operatori, aziende e servizi per meglio comprendere quali siano le difficoltà che incontrano e si fanno sperimentazioni al fine di mettere a punto strategie per superarle. Le statistiche sia nazionali che europee mostrano tassi di disoccupazione molto preoccupanti per quanto riguarda le persone con disabilità, in particolare se intellettiva, ad esempio, in Italia, gli occupati tra le persone con disabilità con più di 15 anni sono, costantemente, almeno 25 punti percentuali in meno rispetto agli occupati tra le persone senza disabilità. Anche l’Unione Europea ha espresso a più ripresa preoccupazione per la situazione di sotto- occupazione delle persone con disabilità, finendo per rendere questo aspetto una delle priorità dei programmi di finanziamento degli ultimi anni. Il lavoro per le persone con disabilità costituisce dunque un tema critico, una questione aperta che domanda risposta, e questa risposta, spesso, viene ricercata attraverso una soluzione che si articola sotto forma di come: qual è il metodo più efficace per inserire al lavoro?, qual è la politica maggiormente sostenibile?, quali sono gli elementi necessari per un accompagnamento che funzioni?. Ci si trova di conseguenza ad affrontare questioni sempre più complesse: chi può essere inserito al lavoro? e soprattutto, qual è il soggetto deputato a deciderlo?. Se le domande in merito a come accompagnare le persone con disabilità al lavoro sono tanto diffuse quanto giustificate, appare altrettanto necessario approfondire un aspetto che talvolta viene trascurato: IL PERCHÉ, Perché è importante il lavoro per le persone con disabilità? L'approvazione della CONVENZIONE ONU SUI DIRITTI DELLE PERSONE CON DISABILITÀ cambia radicalmente la prospettiva attraverso cui guardare alle questioni. Il fatto che le persone con disabilità siano cittadini titolari di diritti al pari degli altri arriva così a costituire la cornice formale, legislativa e culturale per nuovi pensieri e nuove pratiche. La convenzione chiama ad immaginare nuove politiche che siano finalizzate non più a rispondere ai bisogni di un gruppo svantaggiato, ma a modificare la società affinché questa diventi un ambiente in cui è possibile la piena cittadinanza per coloro, che tra i cittadini, sono persone con disabilità. Ciò a cui la Convenzione ONU porta è una modifica che investe la cornice del discorso, cioè il paradigma: cambiamento che coinvolge il modo stesso di intendere la disabilità. E nell'ambito di questo framework che il lavoro si configura primariamente come un diritto. La Convenzione ONU dedica al diritto al lavoro un intero articolo, il NUMERO 27. Si parla del diritto delle persone con disabilità al lavoro su base di parità con gli altri, ciò include il diritto all'opportunità di mantenersi attraverso il lavoro che scelgono e accettano liberamente in un mercato del lavoro, in un ambiente lavorativo aperto, che favorisca l'inclusione e l’accessibilità delle persone con disabilità.
L'articolo 27 della Convenzione ONU parte dal presupposto che siano assunti alcuni elementi importanti come per esempio il fatto che l'intero documento e tutti i diritti sanciti si riferiscono a tutte le persone con disabilità, senza alcuna distinzione. Ci si basa sulla definizione di persone con disabilità che si trova all'articolo uno del testo: “per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri.” La disabilità è considerata esclusivamente in quanto frutto dell'interazione tra una menomazione e un contesto sfavorevole. È da notare, in questo senso, come la condizione di disabilità non sia statica, ma possa variare sulla base del contesto materiale, relazionale in cui la persona si trova. La convenzione introduce, infatti, la dimensione del diritto a vivere nella società sulla base di uguaglianza con gli altri declinando quindi i contesti come molteplici e diffusi nel mondo di tutti. La Convenzione ONU aggiunge un altro elemento :precisa la ragione per cui è necessario “RIDURRE LA DISABILITÀ” ; i contesti vanno adattati perché le barriere rischiano di impedire la piena partecipazione sociale, la piena cittadinanza delle persone con disabilità. La disabilità strutturalmente data dall'interazione con un contesto sfavorevole ancora oggi non riesci a trovare una grande diffusione in termini culturali, professionali e di discorso. Prova ne è l'utilizzo, ancora oggi molto diffuso, del vecchio concetto di GRAVITÀ , che si riscontra sia nell'ambito dei servizi sia in larga parte nel discorso professionale. Nell'ambito del nuovo paradigma questo concetto risulta del tutto superato, non potrebbe del resto essere diversamente, poiché la disabilità non è più considerata, lo abbiamo visto, una condizione propria della persona ma è definita come il risultato dell'interazione con ciascun contesto sfavorevole che la persona incontra nel suo percorso di vita e nella società di tutti. La prospettiva che impone il superamento del concetto di gravità rappresenta un punto di vista quanto mai innovativo. Il fatto che la Convenzione ONU non faccia distinzioni di gravità non è un elemento accessorio, o casuale, ma costituisce il fondamento di tutto il paradigma: quello che la Convenzione ONU afferma non è che i diritti sono gli stessi qualsiasi sia la gravità della disabilità, ma che il concetto di gravità è un concetto in proprio, privo di senso nel contesto dell'attuale definizione di disabilità e, dunque, da considerare superato. Questo è uno degli elementi su cui il cambiamento di paradigma necessita ancora di un intenso lavoro: il concetto di gravità si trova diffusamente utilizzato ancora oggi e spesso persino paradossalmente nell'ambito di programmi di attuazione della Convenzione ONU. Non è frequente di fatti incontrare un programma, un progetto o un servizio per persone con disabilità medio lieve oppure grave o gravissima che allo stesso tempo afferma di attuare la Convenzione ONU e ne tralascia uno dei principi chiave, ovvero il fatto che il concetto di gravità sia improprio.
Quando parliamo di INSERIMENTO intendiamo indicare come oggetto del nostro lavoro e destinataria delle nostre azioni la persona con disabilità , che deve essere aiutata a raggiungere un profilo di caratteristiche compatibili con un dato contesto per potervi essere inserita. Quando si parla invece di MODIFICARE IL CONTESTO non è la persona che deve raggiungere un livello di funzionamento che le consenta di essere inseriti in uno spazio dato, ma è quello spazio che deve essere sostenuto a modificarsi per consentire la piena partecipazione della persona. La prospettiva, per quanto riguarda il lavoro, rimane sia linguisticamente che semanticamente ferma all'inserimento lavorativo. La locuzione inserimento lavorativo non è coerente con la prospettiva della Convenzione ONU in quanto denotA un modello di sostegno al lavoro basato su un paradigma superato. Il termine inserimento, infatti, era quello usato fino agli anni 80 quando ad esempio si parlava anche di inserimento scolastico per indicare un processo in cui altri decidevano il posto delle persone con disabilità e delle loro famiglie dove collocare la persona. Questa collocazione poteva avvenire in un luogo di tutti o in un luogo speciale, a seconda delle caratteristiche della menomazione che, nell'allora condiviso modello medico, circoscriveva sostanzialmente le possibilità esistenziali della persona. Dall'inserimento si è passati poi a parlare di INTEGRAZIONE il cui termine prevedeva la possibilità per le persone con disabilità di stare nei medesimi luoghi dove stavano gli altri. Il concetto di integrazione, pur non prevedendo la modifica strutturale e sistematica del contesto, iniziava a introdurre l'idea che non fosse esclusivamente la persona con disabilità a doversi adattare un contesto dato, ma che anche il contesto dovesse muoversi per rendere questa integrazione possibile. però restano le persone con disabilità a doversi adattare per poter essere integrate pienamente. Di conseguenza, i percorsi rimangono strutturati in modo che, laddove le persone non riescono a raggiungere i livelli di funzionamento considerati accettabili, vengano pensati per loro luoghi, contesti speciali e separati dove possono essere accolti, eduucati, intrattenuti. Lentamente si è passati oggi dall'idea di integrazione all'idea di INCLUSIONE, in cui la modifica del contesto è strutturale e sistematica. Il concetto di inclusione implica che le persone con disabilità hanno il diritto di decidere insieme agli altri cittadini come la società possa offrire un ambiente che garantisca i loro diritti umani: cioè è la società che deve adattarsi alle loro caratteristiche. Quello che cambia tra inserimento e inclusione è la direzione del lavoro: nell'inserimento l'operatore agisce per modificare la persona, nell'inclusione l'operatore agisce per modificare il contesto. Per quanto riguarda il lavoro si parla ancora in modo sostanzialmente uniforme di inserimento lavorativo. Questo, come si diceva, non costituisce solo un dettaglio linguistico, bensì denota la corrispondenza con un modello precedente alla Convenzione ONU. Ma quando la Convenzione ONU assume la prospettiva dell'inclusione non lo fa in modo casuale, si tratta infatti dell'unico orizzonte di riflessione e di operatività che risulta compatibile con l'affermazione di uguali diritti, con il superamento del concetto di gravità e con la prospettiva mainstreaming; appunto si tratta di assumere la prospettiva della vita libera nel mondo di tutti, sulla base di uguaglianza con gli altri, quale lente attraverso cui guardare il lavoro, così come tutte le altre dimensioni dell'esistenza delle persone con disabilità.
Se si parla di lavoro e disabilità il termine lavoro finisce frequentemente in secondo piano, la condivisione del significato viene data per scontata, il concetto viene ridotto di significato e la condizione di disabilità sembra diventare l'elemento che orienta tutti i discorsi. Il lavoro, tuttavia, è un concetto dalle molteplici implicazioni storiche, sociali, psicologiche e soprattutto largamente stratificato a livello semantico. Lasciare queste dimensioni fuori dalla trattazione rischia di rendere un quadro parziale, che non consente un'autentica comprensione del fenomeno. Il 900 inizia con la pubblicazione di due opere chiave per la filosofia contemporanea, “Il capitale” di Marx del 1867 e “L'etica protestante e lo spirito del capitalismo” di Weber nel 1904. Si tratta di testi fondamentali per la storia della filosofia, attorno a cui si strutturano, tra analisi e critiche, molte delle riflessioni e delle teorie sociali ed economiche successive. Questi testi, cercano di rispondere, attraverso l'analisi del concetto di lavoro, a quesiti di ordine morale, politico e filosofico. Il lavoro resta per tutto il 900,la categoria primaria tanto che per alcuni autori è proprio nel lavoro che si può ritrovare lo snodo del rapporto tra individuale e collettivo nelle società contemporanee. Nel suo saggio “La sfida di diventare un individuo” il sociologo ROBERT CASTEL ripercorre proprio il rapporto tra collettivo e individuale, attraverso il concetto di cittadinanza. Castel dice che l'elemento centrale che qualificava la possibilità stessa di essere un individuo nella società non era al lavoro, ma LA PROPRIETÀ. Possedere = consentiva ad una persona di vivere, cioè, di avere i mezzi per sostentarsi e un riparo. La proprietà, inoltre, consentiva alle persone di essere protette, cioè di essere al sicuro in particolare rispetto al rischio di precipitare in stato di indigenza a fronte di un evento negativo tra i tanti che possano accadere nel corso della vita. Castel prosegue poi nel descrivere una transizione, che è avvenuta nella seconda modernità: LA TRANSIZIONE AL SALARIO. È nella fase storica a cavallo della rivoluzione industriale, che si modifica l'elemento principale che costituisce il mediatore della cittadinanza: non si è più cittadini per mezzo della proprietà, ma grazie al fatto di essere lavoratori salariati, si passa dalla cittadinanza per proprietà privata alla cosiddetta CITTADINANZA SOCIALE. In quella fase, gli Stati moderni, operano una scelta che ancora oggi è al cuore degli attuali sistemi di welfare, la scelta di accompagnare il salario con protezioni specifiche; il salario offre dunque la possibilità di vivere, ma porta con sé anche quella di essere protetti , oggi e domani: casse mutue e poi nei sistemi sanitari per quanto riguarda la salute e nei sistemi previdenziali, per quanto riguarda la protezione del futuro. Da questo momento in poi, il presente, il futuro e la possibilità di essere cittadini non sono più legati all'essere possidenti ma sono legati al doppio filo dell'essere lavoratori salariali. Con la rivoluzione industriale il lavoro salariato vedo un'espansione esponenziale: a partire dall'inizio del 1900, un numero sempre maggiore di individui diventa proprietario di diritti in quanto lavoratore. La capacità stessa di essere individui è data dunque da quella che Castel chiama PROPRIETÀ SOCIALE. Il sociologo con queste espressioni intende la piattaforma di risorse e diritti che hanno dato alla maggioranza degli individui della società moderna i mezzi per essere indipendenti e la possibilità di vivere all'interno della società. La cittadinanza sociale si configura come un concetto
responsabilità della loro condizione perché avevano sacrificato la loro vita non disabile per il proprio paese. I reduci di guerra arrivavano nella comunità ad ondate e rientravano in famiglie e comunità già spesso provate dalla guerra stessa o dall’assenza dei propri cari. Diventa dunque un obiettivo della società provare a ricostruire almeno parte della possibilità di vivere nella comunità di queste persone, portatrici di un'esperienza così particolare, a cavallo tra rischio di marginalità e cittadinanza. A questo fine, nei primi anni del 900, in particolare negli USA, si inizia a pensare di proporre ai combattenti che tornano con gli esiti delle ferite di guerra, prevalentemente fisici ed irreversibili, alcune attività che possano offrire loro l'occasione di ritrovarsi, di sentirsi ancora utili nonostante il cambiamento di immagine e funzionalità dei loro corpi, di riempire giornata che per le altre persone della loro comunità sono riempite dal lavoro. Nasce così LA TERAPIA OCCUPAZIONALE approccio a vocazione terapeutica, finalizzato a riparare almeno le conseguenze sociali del danno fisico che la guerra ha provocato, sostenendo il benessere attraverso attività finalizzate. La terapia occupazionale non è sinonimo di attività lavorativa, ne nasce come un percorso di avviamento al lavoro, ne ricalca alcuni aspetti e ne riprende la classica collocazione oraria nella giornata ma per altri versi non si pone come il lavoro. Per esempio dal punto di vista economico una retribuzione per gli invalidi di guerra impegnati nella terapia occupazionale non era contemplata, trattandosi per loro di specifiche attività a vocazione terapeutica. Era un'attività di natura sostanzialmente riparativa e compensatoria. Partendo dal presupposto che gli invalidi di guerra non potevano essere reinseriti pienamente nella società perché presentavano dei difetti fisici, ma che al tempo stesso meritassero di non finire marginalizzati, veniva offerto loro un supporto benevole e organizzato, affinché migliorassero le proprie condizioni psicofisiche, tornando, almeno da questo punto di vista, il più possibile vicini allo stato precedente la partenza. Il filone morale: ergoterapia nell’istituzione totale. Un altro filone significativo, che confluisce in maniera consistente nell'attuale concettualizzazione del lavoro per le persone con disabilità proviene dalla connessione tra lavoro e terapia all'interno delle istituzioni totali. Ci troviamo in un contesto storico e sociale completamente diverso rispetto a quello delle società che si proponevano di riparare al danno subito dagli invalidi di guerra. Le persone internate nelle istituzioni totali sono infatti, all'opposto dei reduci che hanno difeso la patria, sono coloro da cui la società ritiene di doversi difendere. La prima istituzionalizzazione, quella degli “asili” settecenteschi, non nasce da una necessità di assistenza, ma da un bisogno di allontanamento di alcune persone dalla società di tutti. Per le persone rinchiuse nelle istituzioni totali, nasce L’ERGOTERAPIA che si sviluppa con una doppia finalità: il primo obiettivo è trascorrere del tempo impegnati, perché questo appare ragionevolmente più auspicabile rispetto alla totale inattività; al tempo stesso l’ergoterapia si configura come strumento e misura dell'adattamento all’istituzionalizzazione. Questo vuol dire che l’ ergoterapia favorisce l'adattamento all’istituzionalizzazione e al tempo stesso si configura come una forma di collaborazione al mantenimento dell'istituzione in cui la persona stessa veniva rinchiusa, perché, l'attività svolte dalle persone, o venivano svolte all'interno dell'istituzione nella quale erano rinchiuse, oppure, erano svolte all’esterno ma sempre collegate all'istituzione nella quale erano rinchiuse.
L’ergoterapia vede nelle istituzioni totali la sua massima diffusione storica, ma secondo gli studi di ERVING GOFFMAN l’ergoterapia non può essere considerata lavoro poiché il lavoro nell'istituzione totale non è né utile né è possibile. Non è utile perché la funzione sociale principale del lavoro è quella emancipatoria e dunque esiste esclusivamente in relazione alla possibilità di praticare la cittadinanza sociale cosa che non è possibile con l’ ergoterapia. Non è possibile perché per potersi definire tale il lavoro non solo deve essere retribuito, elemento che è assente nell’ ergoterapia, ma il lavoratore deve avere la possibilità di spendere il denaro guadagnato al di fuori del controllo, della supervisione del potere. Questo non è possibile poiché, per definizione, l'autorità pervade tutti gli aspetti della vita dell'individuo. Ergoterapia e istituzionalizzazione erano dunque in un rapporto molto stretto perché le pratiche ergoterapiche non sarebbero possibili se immaginassimo le persone a cui vengono proposte come persone autenticamente libere e dall'altra parte Goffman individua il lavoro come il dispositivo che meglio si può utilizzare per segnalare, anche per porre, il limite al controllo pervasivo dell'esistenza che è tipico dell'istituzione totale. L'ergoterapia ancora oggi, però, viene utilizzata come lavoro per le persone con disabilità. Ad esempio viene usata con le persone con dipendenza da sostanze. In questo caso, al lavoro, (gratuito) viene spesso contrapposta la sostanza da cui la persona è dipendente attraverso considerazioni di ordine morale: “il lavoro è propriamente il luogo del dovere, la droga è il luogo del piacere”. Le persone sono, dunque, in questa lettura, dipendenti per aver fatto la scelta sbagliata e ora sono chiamate a fare la scelta giusta attraverso la sperimentazione del lavoro gratuito al servizio dell'organizzazione. Risulta chiara la distanza di tale visione dal senso che il lavoro assume per i cittadini poiché il significato del lavoro resta così, privo di alcune tra le sue dimensioni chiave, retribuzione, funzione emancipatoria, funzione di mediatore di cittadinanza. Il filone normalizzante: lavora come se fosse normale. Il terzo filone di discorso che confluisce nelle pratiche attuali di sostegno al lavoro per le persone con disabilità è molto più recente rispetto ai due precedentemente descritti e si tratta di un filone che possiamo definire NORMALIZZANTE. Questo filone nasce con una dinamica in contrasto con il presupposto dell'esclusione dallo spazio sociale delle persone che un tempo venivano definite inabili. Se le persone con disabilità sono escluse dallo spazio sociale, con la risposta che non possono lavorare come gli altri, allora la prima risposta da parte di chi vuole contrastare questa esclusione e che invece si certo che possono lavorare. Il discorso normalizzante investe un ambito più ampio rispetto al solo lavoro ed è molto presente nel dibattito sulla disabilità negli ultimi anni, inoltre, è strettamente connesso, ma non del tutto sovrapponibile, con il concetto di ABILISMO. L'abilismo è un concetto che si fa strada alla fine degli anni 90, nell'ambito dei disability studies per indicare tutti quegli atteggiamenti e quelle barriere che contribuiscono a subordinare socialmente le persone con disabilità rispetto alle persone senza disabilità. E’ una forma di razzismo nei confronti delle persone con disabilità per la quale si parte dal presupposto che tutte le persone abbiano un fisico abile. Viene dunque agito tanto da parte delle persone senza disabilità, quanto, da parte di alcune persone con disabilità.
più spesso nel corso della prima infanzia, e dell'adolescenza, da medici, terapisti, insegnanti, educatori. Il fatto che la persona venga classificata precocemente come in grado di lavorare oppure no assume all'interno dell'attuale sistema la funzione di orientare il suo percorso fin dalla prima frequenza scolastica e le scelte, l'esperienze, l'opportunità vengono derivate molto spesso da questo futuro previsto per lui. Tuttavia, l'inclusione scolastica, fa sì che questo orientamento rimanga sostanzialmente latente fino a quando è garantita la frequenza scolastica. A mano a mano che il momento della fine della scuola si avvicina, le famiglie vengono sempre più consistentemente accompagnate a costruire ragionamenti e immaginari attorno due aspetti: POTER LAVORARE O NON AVERE LE CAPACITÀ PER POTERLO FARE. La possibilità o no di lavorare per il proprio figlio dipende completamente dalle sue caratteristiche intrinseche. A seguito di questo assunto, le famiglie vengono spesso guidate dai professionisti a rinunciare ai sogni, alle speranze per un futuro adulto dei loro figli che possa articolarsi autenticamente sulla base di uguaglianza con gli altri, comprendendo tra le varie dimensioni dell'esistenza anche quella del lavoro. Se viene certificato che la persona non può lavorare, questa perde concretamente il diritto ad accedere ai sostegni per provarci, se lo desidera : non ha più diritto a un supporto nel cercare un lavoro, né gli aspetta un accompagnamento educativo che sostenga la modifica del contesto nel caso in cui trovi autonomamente un'occupazione. Potremmo affermare che oggi le persone con disabilità sono costretta a seguire percorsi segnati, sono costrette nel senso che se scelgono altrimenti, non ricevono il sostegno nella misura in cui necessitano, vengono giudicate incapaci di leggere la realtà. Sono costrette nel senso che, quando optano per qualcosa di diverso, devono provvedere interamente all'organizzazione e ai costi. Se per le tue caratteristiche gli operatori valutano che puoi lavorare, ci sono per te certi servizi: se invece valutano che non puoi ce ne sono altri, qualunque cosa tu pensi o desideri non è in grado di intaccare questo meccanismo. Una volta terminati gli studi avviene per tutti una prima grande selezione tra le persone con disabilità che si affacciano all'età adulta, una buona parte non tenterà neanche di accedere alla strada del lavoro, e hanno incontrato sul loro cammino operatori che hanno in varia misura certificato, consigliato, suggerito che il lavoro per loro non è possibile. Per le persone con disabilità una volta terminata la scuola ci sono percorsi nei quali per ogni capacità/abilità raggiunta dalla persona corrisponde un gradino verso la possibilità, alla fine della scuola, di essere inseriti in percorsi lavorativi e attraverso questi nel mondo di tutti. Ma la Convenzione ONU sostiene che non ci sono quelli che possono e quelli che non possono ma che alcune persone con qualche sostegno riescono ad accedere alla piena cittadinanza mentre altre per accedervi necessitano che venga messo in campo un sostegno più articolato. Compito di un sistema dei servizi fondato sulla Convenzione ONU diventa, dunque, il mettere a punto sostegni che consentano, alla specifica persona con disabilità, di accedere alle aree della vita che compongono la cittadinanza piena ed indipendentemente dalle sue condizioni e dalla
menomazione da cui è colpita. Se ci si muove in un paradigma ispirato alla Convenzione ONU il sistema dei servizi non hanno pertanto più alcun bisogno di certificare a priori chi può lavorare e chi no, perché il lavoro è un diritto di tutti e il compito del sistema non è più decidere chi ha quel diritto e chi no, ma diventa mettere a punto sostegni per consentirne l'esercizio a tutte le persone. Attualmente invece, nel corso degli anni della scuola e della prima età adulta, i giovani vengono inseriti nei contesti con l'obiettivo primario di vedere se ce la fanno e se hanno le capacità giuste per poter lavorare. Se non ce la si fa l'esistenza adulta della persona viene orientata verso prospettive, significati, esiti profondamente diversi: il centro diurno e esperienze cosiddette pre lavorative o accompagnamento al lavoro. Abbiamo visto dunque che molti giovani con disabilità vengono valutati, già nel corso degli anni dell'adolescenza, come NON IN GRADO DI LAVORARE: sono coloro per i quali lavoro non arriva mai a costituire neppure una prospettiva ipotetica. Queste persone ricevono come proposta per la loro quotidianità adulta attività educative, socializzanti, terapeutiche per lo più svolte nel centro diurno. Ci sono poi coloro che NON SONO RIMASTI ABBASTANZA DISTANTI DALLA NORMA PER ESSERE ALLONTANATI DA OGNI PROSPETTIVA LAVORATIVA: qui avviene una seconda selezione. Quelli che vengono ritenuti meno pronti sono inseriti in ulteriori percorsi preparatori svolti attraverso attività in centri , gli altri, quelli giudicati più pronti, vengono avvicinati un pochino di più al lavoro e accedono ad esempio a tirocini o esperienze socializzanti o educative in contesti di tutti. A questo punto c'è la possibilità di arrivare a quella che il sistema codifica come la procedura vera e propria per accedere al lavoro. Com'è noto, l'azienda con un numero di dipendenti superiori a 15 sono tenute, in base alla legge 12 marzo 1999, n.68, ad assumere lavoratori con disabilità in proporzione ai dipendenti. Poiché si presuppone che un datore di lavoro predilige un lavoratore senza disabilità, la legge crea un bacino di posti di lavoro riservati alle persone con disabilità. La normativa, dunque, istituisce un sistema in base a cui una commissione di tecnici prevalentemente professionisti sanitari, con l'aggiunta di un professionista sociale, ha il compito di valutare la persona e il potere di stabilire se avrà la possibilità di lavorare : tale possibilità viene definita in termini di capacità quindi in termini sostanzialmente individuali. Questa valutazione avviene prima che sia individuato il futuro posto di lavoro e perciò non può, ovviamente, tenere in conto di un contesto che non si sa ancora quale sarà. La possibilità di lavorare viene dunque definita in termini di capacità, che si chiamano CAPACITÀ RESIDUE. L'idea di fondo è che una persona senza disabilità abbia la capacità lavorativa intera, mentre alle persone con disabilità di questa capacità lavorativa manca una parte : bisogna cosi esaminare la persona per scoprire se la parte residua sia sufficiente per lavorare oppure no. Mettendosi dal punto di vista di un giovane con disabilità che , al termine della scuola, voglia accedere ad un percorso lavorativo questo deve dunque come prima cosa fare domanda per essere valutato dalla commissione e scoprire se ha le capacità lavorative residue. Le persone che arrivano allo step di verifica delle capacità residue sono già state oggetto di diverse valutazioni, valutazioni che hanno stabilito che non possono lavorare o possono lavorare se dimostrano di avere le capacità residue. Le persone per le quali le capacità residue non vengono rilevate è negata la possibilità di accedere al lavoro nel significato che ha per le persone senza disabilità.
Il sistema di valutazione volte individuare le capacità residue, è chiamato a definire nel merito anche l'eventuale necessita di sostegni da parte del lavoratore. Questo sostegno viene definito come un accompagnamento di tipo educativo da svolgersi a cura di un ente accreditato (INPS, ASL, CPI ) che designano per il giovane la possibilità di accedere al mondo del lavoro se un ente accreditato fornisce l'accompagnamento educativo necessario. Centro per l'impiego ed ente ricercano anche il posto di lavoro in cui inserirlo. Accompagnare e sostenere al lavoro Emergono oggi ancora molti modelli e pratiche di accompagnamento istituzionalizzanti che finiscono per delimitare ampie sacche di esclusione. Questo capitolo affronta l’analisi delle metodologie efficaci per sostenere l’accesso al mondo lavoro che in realtà esistono e necessitano soltanto che venga costruito lo spazio a livello organizzativo e culturale affinché possano essere diffusamente attuate. Una distinzione tipica per quanto attiene al lavoro per le persone con disabilità è tra CONTESTO PROTETTO E CONTESTO DI TUTTI. Quest'ultima distinzione risulta centrale quando ci si avvicina a trattare il tema delle modalità di sostegno al lavoro. In contesto protetto Attività NON lavorativa in contesto protetto (es. centri diurni) Attività lavorativa IN CONTESTO PROTETTO (es. laboratori di produzione) In contesto di tutti Attività NON lavorativa in contesto di tutti (es. percorsi socializzanti) ATTIVITÀ LAVORATIVA IN CONTESTO DI TUTTI (es. lavoro per persone senza disabilità) Vi sono delle differenze strutturali tra le modalità di accompagnamento al lavoro in contesto protette e le pratiche di accompagnamento al lavoro in contesto di tutti. In letteratura è condiviso il pensiero che la situazione auspicabile sia il lavoro in contesto di tutti. Il paradigma della Convenzione ONU ci dice in modo chiaro questa cosa, suggerendo che l'ambiente da rendere accessibile ai lavoratori con disabilità debba essere un contesto MAINSTREAMING e non un ambiente speciale. Questa consapevolezza era comune anche prima della convenzione, tanto che la maggior parte dei paesi europei, tra cui l'Italia, ha messo in campo già da alcuni decenni misure di sostegno al lavoro nel mercato tradizionale. La più diffusa, presente anche in Italia, è il già citato sistema di quote in base al quale le imprese di una certa dimensione sono obbligati a impiegare una percentuale definita di dipendenti con disabilità. Se si guarda i dati però si può prendere atto del fatto che il lavoro in contesto di tutti riguarda una percentuale minima delle persone con disabilità: per molti giovani con disabilità, in particolare se intellettiva o relazionale, il percorso segnato è quello del lavoro protetto, di un'attività di tipo occupazionale o socializzante. Attualmente, anche a livello europeo, la modalità prevalente per inserire al lavoro le persone con disabilità è quella di impiegarle in aziende dedicate, che forniscono un lavoro in ambiente protetto detto SCHELTERED WORK.
Esso costituisce, ancora oggi, spesso, la prima scelta quando si tratta di accompagnare all'inserimento lavorativo di persone con disabilità , in particolare se intellettiva. Questa tendenza a prediligere lo scheltered work risulta tanto diffusa quanto stabile: anche a fronte della Convenzione ONU, tale preferenza viene mantenuta nelle pratiche, spesso connotandola come esperienza preparatoria che potrà trasformarsi in percorsi lavorativi mainstreaming se la persona dimostrerà di saperlo fare. L'idea su cui si regge questo sistema è che, frequentando l'attività relativa a uno step, la persona sarà accompagnata a sviluppare le capacità per accedere allo step successivo: chi ce la fa arriva così al contesto mainstreaming, gli altri si fermano a uno dei livelli inferiori. Il modello train and place. Secondo le metodologie che caratterizzano questo modello, le persone con disabilità devono apprendere prima una serie di competenze e raggiungere alcuni requisiti di base , dopo averli raggiunti possono essere messi in situazioni professionali e di vita indipendente autentiche, dove potranno usare l'abilità apprese. Queste metodologie si dipanano all'interno di un sistema che viene denominato CONTINUUM OF CARE e si tratta di un percorso sequenziale protetto nei quali si ritiene che le persone possano progredire lentamente attraverso la formazione per tappe successive, pensate per avvicinarsi a mano a mano all'obiettivo finale di inserimento professionale o di vite indipendenti in contesto di tutti. In questo percorso le persone non sono esposte a richieste situazionali autentiche fino a che l'operatore non ritiene che la persona con disabilità possieda le competenze per farvi fronte. Sono previste diverse fasi di attività in ambienti artificiali, volte a potenziare le capacità e sviluppare quelli che sono considerati i requisiti per poter accedere al mondo reale, al lavoro o al diritto di vita indipendente. I percorsi risultano avere molti requisiti di accesso, molte persone non riescono ad andare oltre a un certo step e, soprattutto, anche coloro che progrediscono gradualmente fino alla conclusione del percorso difficilmente riescono ad accedere a un'autentica vita adulta nel mondo di tutti. I programmi di transizione alla vita adulta costruiti sulla base di questo modello non facilitano il lavoro e la vita nel mondo reale. Nonostante ciò, il continuum of care resto un modello molto diffuso: una delle ragioni può essere probabilmente ricercata a livello culturale ( prediligere il vecchio ordinamento) secondo cui l'esigenza primaria è custodire la persona in un luogo protetto, lasciando che affronti esclusivamente le dimensioni dell'esistenza che ha dimostrato di poter gestire. I programmi train and place, ancora prima di contraddire la Convenzione ONU, non riescono a raggiungere gli obiettivi che essi stessi si prefiggono: nelle migliori delle ipotesi, le persone inserite in queste pratiche, imparano a vivere, lavorare e socializzare limitatamente all’ambiente protetto nel quale sono inserite e non nel contesto di tutti. Una persona inserita in un centro è di fatto accompagnata a sviluppare la capacità per vivere e lavorare in un luogo supervisionato, protette che non ha corrispondenti nel mondo reale. Se con il tempo sta sempre meglio nel centro e migliora nelle sue attività quotidiane, questo significa che si sta adattando al centro, non che è sempre più pronto per uscirne.
quando l'accompagnamento al lavoro e quello ala vita indipendente costituivano dimensioni residuali nell'esistenza delle persone con disabilità e non erano certo sanciti come diritti. Ragioni di ordine organizzativo: difficoltà che hanno gli operatori nel dialogare con le aziende e quindi difficoltà di accompagnare le persone con disabilità ad affrontare situazioni lavorative nel contesto di tutti. Uno degli elementi che maggiormente influenzano l'esclusione delle persone con disabilità dal mercato mainstreaming del lavoro è l'esistenza di BARRIERE SOCIALI. È possibile che si instauri una sorta di circolo vizioso per cui culturalmente si fa fatica a vedere la persona con disabilità come lavoratore e, causa di questo pregiudizio, si tende a propendere per modelli train and place che appaiono maggiormente protetti, i quali però danno luogo a percorsi fallimentari una volta trasferiti nei luoghi di lavoro tradizionali. Così si finisce per confermare l'idea che le persone con disabilità non possono lavorare in contesto di tutti, si rinforza l’idea che se una persona non riesce a stare nel contesto protetto non potrà stare nel contesto di tutti. Disabilità intellettiva. Un'area di particolare criticità sembra essere quella relativa ai lavoratori con DISABILITÀ INTELLETTIVA E/O RELAZIONALE. I dati mostrano un'ulteriore sottoccupazione in quest'area e spesso anche le metodologie place and train sono messe in difficoltà. Questo accade a causa di una maggiore complessità nel concepire e progettare adattamenti di contesto in questa specifica situazione. Per quanto riguarda la disabilità intellettiva e relazionale si tende ad attribuire l'impossibilità di svolgere un compito alle caratteristiche della persona e non alla presenza di barriere nel contesto. Ci si dimentica che l'ordinamento per i compiti cognitivi risulta più complesso e necessita di frequente di una competenza tecnica ovvero è più facile stabilire che cosa bisogna fare per una persona che ha una disabilità fisica rispetto a una persona che ha una disabilità intellettiva. Es: una persona che è in carrozzina di fronte a delle scale avrà bisogno di un montascale. Una persona che sa fare delle cose ma non sa spiegare come si fanno, in questo caso è molto più difficile capire come aiutarla. Questo è uno degli elementi che rende le persone con disabilità intellettiva ancora più marginali rispetto al mercato del lavoro, per far diventare un ambiente lavorativo accessibile a un lavoratore con disabilità motoria non è difficile capire quali siano le azioni da fare, per rendere un ambiente lavorativo accessibile a un lavoratore con disabilità intellettiva sono essenziali una serie di competenze tecniche. Questo rende difficile immaginare degli adattamenti, degli accomodamenti ragionevoli che possano consentire alla persona di esercitare il diritto al lavoro in contesto di tutti. Dal punto di vista delle aziende però si nota come le richieste da parte dei luoghi di lavoro non vadano in direzione dei lavoratori con disabilità più formati ma proprio di un maggiore sostegno in situazione e molti colgono anche un’opportunità nell’inserimento delle persone con disabilità perché quando l’assunzione è accompagnata avere nel team una persona con disabilità produce un miglioramento gestionale e organizzativo che va a vantaggio di tutti gli altri dipendenti.
Un metodo ci vuole A fronte dell’elevata complessità che il tema del lavoro denota dal punto di vista sia teorico sia applicativo negli ultimi anni emergeva dunque con forza la necessità di una riproblematizzazione dei significati che fosse accompagnata da l’individuazione di un approccio sistematico finalizzato ad accompagnare al lavoro le persone con disabilità in modo coerente con il paradigma dei diritti sancito dalla convenzione Onu. Per provare a rispondere a questa necessità il gruppo di ricerca denominato “Centro studi per i diritti e la vita indipendente” dell’università di Torino ha messo a punto il METODO WIDE (WORK INTELLECTUAL DISABILITY ENVIRONMENT). Le prime sperimentazioni pilota che offriranno le basi per lo sviluppo dell’approccio nascono nell’ambito di un progetto di ricerca più ampio sulle modalità possibili d’attuazione della convenzione Onu: il progetto VELA - verso l’autonomia. (di Marchisio e Curto). Il metodo WIDE si è sviluppato sul campo accompagnando e monitorando rigorosamente il percorso delle persone. Il metodo è quindi considerato place and train o meglio PLACE AND THINK. La priorità non appariva dunque dimostrare l'efficacia degli approcci già esistenti quanto piuttosto indagare e raffinare gli aspetti che possono influire sul gap tra quanto la letteratura da diversi anni afferma e i modelli invece che sono diffusi a livello delle pratiche. Le prime sperimentazioni e le successive modifiche hanno portato alla messa a punto di un approccio metodologico che oggi vive una fase di consolidamento sia attraverso ulteriori sperimentazioni sia mediante programmi formativi destinati al trasferimento delle modalità operative a tutti i soggetti deputati ad accompagnare al lavoro le persone con disabilità. Le principali caratteristiche del metodo WIDE sono che deriva dal paradigma della Convenzione Onu e il metodo place and train e le specificità che assume dal modello IPS. Al fine della messa a punto del metodo è apparso fin da subito centrale il superamento della concezione del lavoro come un’attività legata alla sfera socio riabilitativa e come elemento educativo e terapeutico. A livello operativo gli elementi del metodo WIDE sono: Una consistente e trasparente negoziazione primaria con l’azienda dopo il periodo di tirocinio iniziale; Nessuna valutazione previa relativamente alle capacità della persona; Questo porta a delle conseguenze: Lavoro in contesti non protetti e aspecifici; Primo contesto lavorativo in cui la persona viene collocata è quello in cui ci sono prospettive di assunzione; Il tirocinio iniziale; Non viene messo in alcun percorso di formazione a competenze di base, sia lavorative che para lavorative, sia in forma d’aula che di laboratori
Tra gli elementi innovativi di WIDE ce n’è uno che viene sviluppato a partire dalle criticità che emergono con i rapporti con le aziende: Il supporto fornito dall’operatore, formato al metodo WIDE, non è al lavoratore ma alla azienda. Prevede quindi una raccolta primaria delle istanze, dell’aspettativa, della cultura aziendale rispetto alla disabilità al fine di decostruire gli stereotipi più diffusi, monitoraggio della modifica di questi elementi nel corso dell’inserimento, attivazione di un intenso sopporto primario alla costruzione e all’adattamento della mansione attraverso il coinvolgimento dei contesti, accompagnamento dei diversi livelli organizzativi alla realizzazione di un vero e proprio disability management condiviso e non delegato al tutor aziendale. Servono aziende speciali? Anche la fase di individuazione delle aziende all’interno delle quali effettuare accompagnamenti con il metodo WIDE segue un’articolazione particolare. Innanzitutto vengono scelte aziende con prospettiva assuntiva (e non solo per brevi esperienze). Ciò che si richiede alle aziende non è di garantire l'assunzione ma quantomeno di non escluderlo a priori, quello che si domanda è la disponibilità a consentire, promuovere, attivare le modifiche del contesto necessarie. Importante porre correttamente le basi affinché sia chiaro fin da subito che si tratta di mettere a disposizione degli adattamenti per consentire l’esercizio del diritto al lavoratore con disabilità , non di un atto di solidarietà in cui si accoglie per un periodo un giovane genericamente svantaggiato. Il cuore dell’accompagnamento Dopo qualche giorno dalla formazione preliminare dei colleghi e dell’azienda inizia il tirocinio retribuito sulla base di uguaglianza esattamente come un tirocinante senza disabilità. Il tutor nelle prime settimane svolge 3 compiti principali: osservazione per definire al meglio sostegni e adattamenti, offre feedback in situazione ai colleghi rispetto alle modalità di comunicazione esplicitando tutte quelle barbiere immateriali (relazionali, linguistiche, d’ambiente) che rendono difficile il contesto per quella specifica persona, in questa fase il tutor utilizza tecniche di modelling mostrando atteggiamento rispettoso e dolce nel suo rivolgersi al tirocinante e riprendendo delicatamente ma sistematicamente comportamenti ed espressioni dei colleghi, ultimo compito fondamentale si accerta che sia dato in modo coerente e sistematico il messaggio “TU SEI UN LAVORATORE COME GLI ALTRI”. Dal monitoraggio all’assunzione Dopo le ore di presenza diretta il tutor introduce l’elemento di monitoraggio telefonico. A seconda della tipologia di lavoro, delle caratteristiche del tutor aziendale e delle tipologie di sostegni necessari, il tutor manterrà un’intensità variabile relativamente ai passaggi diretti in azienda. Viene aggiunto il planning giornaliero delle mansioni del tirocinante che contiene le mansioni dettagliate. Inoltre viene fatto un monitoraggio scritto che riguarda le criticità e altri aspetti dell’occupazione che ha. Nel corso del tempo, successivamente all’assunzione, il sostegno necessario per il mantenimento del posto di lavoro può variare tra un monitoraggio saltuario e una presenza diretta più intensa. Abitualmente si rivela poi necessari successivi aggiustamenti in occasione di cambiamenti che avvengono fisiologicamente all’interno dell’azienda. Il metodo WIDE comprende quindi anche un sostegno autorevole nel mantenimento del posto di lavoro. Lavoro e progetto di vita
Una grossa componente della risposta alla domanda ma perché le persone con disabilità devono lavorare è dunque relativamente semplice: PERCHÉ VOGLIONO. A oggi molte persone desiderano lavorare e molte famiglie sperano che proprio figlio ancora piccolo possa avere l’opportunità di lavoro. Il lavoro costituisce una componente del progetto di molte persone di molte famiglie. Inoltre la convenzione Onu afferma che l’accesso a un’occupazione retribuita senza discriminazioni fa pienamente parte del diritto di cittadinanza. Inoltre il lavoro risulta essere un meccanismo chiave per migliorare l’inclusione sociale e uno strumento per ridurre la povertà a cui le persone con disabilità sono storicamente e statisticamente più esposte. Il lavoro costituisce una delle principali chiavi di accesso all’adultità poiché permette alle persone di vivere come degli adulti cioè con la possibilità di avere una quotidianità che si dipana in ruoli e luoghi non difformi ne separati rispetto ai propri concittadini accedendo così ad una partecipazione sociale piena. Anche dal punto di vista della crescita personale il lavoro aiuta a costruire la fiducia in se stessi e a sviluppare le proprie abilità. Quando si parla di lavoro nella disabilità però tutto questo non avviene cosi concretamente. Ad oggi la principale cornice entro cui si sviluppano discorsi e pratiche che riguardano le persone adulte con disabilità non è quella dell’accompagnamento al lavoro ma quella del “dopo di noi”. Fino a che dunque ci muoviamo all’interno di un paradigma assistenziale che definisce la vita adulta delle persone con disabilità attraverso la modifica del soggetto che se ne occupa (e del soggetto che se ne occuperà dopo di noi) la dimensione del lavoro non può che risultare marginale. Il paradigma dei diritti portato della convenzione Onu modifica l’idea di lavoro per le persone con disabilità sviluppandola a partire non dalla dimensione occupazionale ma dal diritto all’adultità e alla cittadinanza. Nel nuovo paradigma l’accompagnamento avviene attraverso la costruzione dell’adultità per quella specifica persona che include in modo armonico gli aspetti psicologici, sociali, di cittadinanza, di aspirazione della persona, il sistema di valori della famiglia, in questo modo intercetta potremmo dire “naturalmente” la dimensione del lavoro. In questo scenario gran parte della cornice semantico-concettuale del dopo di noi viene meno: alla famiglia non è più chiesto di lasciare andare il figlio affidandola ad altri ma essa viene accompagnata a vedere il figlio che si sviluppa in un mondo di relazioni ruoli sociali, in una quotidianità ricca e reciproca con la sua comunità in cui la dimensione lavorativa è inclusa ed è elemento fondante del suo percorso. Il percorso di vita e di lavoro e di attività ludiche o di svago devono essere scelte dalla persona con disabilità in questione e dalla famiglia non far scegliere a professionisti a priori. Deve essere situato, accordato con le fasi della vita, autodeterminato e socialmente integrato nella società. Il discorso sul lavoro è istituzionalizzato Questo “lavoro” tra virgolette che viene scelto sulla base di valutazioni operate da altri e non si radica nel mondo sociale e nel progetto di vita, nei desideri e nelle aspirazioni della singola persona è istituzionalizzato, e non segue il paradigma dei diritti della Convenzione Onu. Prospettive possibili