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Riassunto percorsi di vita e disabilità per pedagogia speciale con la Marchisio
Typology: Summaries
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Negli ultimi anni uno dei termini cardine del dibattito relativo alla disabilità è stato LA TRANSAZIONE ALLA VITA ADULTA: grazie al progresso della medicina e alla deistituzionalizzazione la vita delle persone con disabilità può ampiamente raggiungere e superare l’adultità. A livello di letteratura possiamo vedere che la transazione alla vita adulta delle persone con disabilità è un tema di forte dibattito, ma all’interno del paradigma assistenziale il sostegno alla vita adulta delle persone con disabilità si sviluppa intorno al concetto del “DOPO DI NOI” = esigenza di trovare un soggetto che si occupi della persona al posto dei genitori, quando questi non ci saranno più. Questa idea genera alcune conseguenze: lasciare andare il figlio con disabilità per i genitori è un’operazione molto difficile se non impossibile. Questa prospettiva porta con se la mancanza di azioni e di programmi sistematici che riguardino la fase di transazione alla vita adulta destinati ai giovani che si trovano tra i 18 e i 30 ‘anni. La prima età adulta è caratterizzata da un’esplosione di opportunità: varietà di esperienze, esplorazione dell’identità. E’ durante questo periodo che molte persone si allontanano dalla casa di famiglia, testano nuovi percorsi, fanno nuove esperienze, scoprono la loro identità, cercano lavoro e diventano indipendenti. Queste esperienze sono più facilmente sperimentabili per le persone tipiche che PER LE PERSONE ATIPICHE, poiché per loro LE OPPORTUNITÀ SI RESTRINGONO. In Italia i ragazzi con disabilità vivono nella grande maggioranza dei casi l’infanzia e buona parte dell’adolescenza nel mondo di tutti, vedendo poi le loro possibilità restringersi anche drasticamente al termine della scuola. Infatti, essi alla soglia della vita adulta non sono incoraggiati e supportati ad intraprendere esperienze diverse, ma al contrario vengono inseriti in percorsi tendenzialmente rigidi in cui altri definiscono quello che “è meglio per loro”. La letteratura individua alcune delle motivazioni per cui per un disabile è più difficile fruire di nuove esperienze di piena adultità nel mondo di tutti: La necessità costante di dimostrare di essere “abbastanza abile” per poter accedere alla vita di tutti; Le forme di supporto non sviluppate sulla persona e non spesso rispondenti ai bisogni reali; Le preoccupazioni sulla vulnerabilità della persona atipica; L’opinione stessa, in particolare tra gli operatori, secondo cui le decisione delle persone con disabilità devono sempre essere validate da un soggetto a sviluppo tipico.
Per molti la combinazione di queste barriere genera un muro insormontabile all’accesso alla vita adulta = opinione distorta secondo cui una persona atipica deve dimostrare di saper stare al mondo, di saper scegliere prima di poterlo fare. Tutto questo genera l’esigenza di lavorare per un nuovo modo di sostenere la vita adulta delle persone con disabilità, che superi il modello assistenziale e si sviluppi a partire dal paradigma dei diritti, concentrandosi per primo sull’allargamento delle opportunità per la vita reale, fornendo a ciascuno il supporto necessario per poter accedere alle dimensioni dell’adultità indipendentemente dalle proprie condizioni. Il concetto del “dopo di noi” nasce agli inizi degli anni ottanta, quando i genitori delle persone con disabilità iniziano a domandarsi, chi si sarebbe occupato dei figli quando loro non ci sarebbero più stati. Allora i centri diurni e le comunità stavano appena prendendo forma, si iniziava appena a parlare di inclusione scolastica e le famiglie costituivano per gran parte delle persone con disabilità l’unico sostegno quotidiano e di contatto con il mondo. Perdere i genitori implicava vedersi privati della possibilità di essere assistiti, di abitare nella propria casa. Il concetto “dopo di noi” ad oggi costituisce la modalità condivisa di rappresentare la vita adulta delle persone con disabilità come un PERCORSO SPECIALE. “DOPO DI NOI” = espressione che definisce uno spazio e un immaginario riservati alle persone con disabilità, perché chi non ha una disabilità viene considerato immediatamente adulto, questa espressione non viene assunta per parlare della vita di una persona tipica che perde i genitori. Analizzando più a fondo l’espressione “dopo di noi” troviamo: NOI = l’ipotesi che al momento della perdita dei genitori tutto il mondo materiale, affettivo, quotidiano e relazionale sia circoscritto al nucleo famigliare; DOPO DI NOI CHI SE NE OCCUPERÀ? = si assume che il principale tema relativo alla vita adulta delle persone con disabilità si possa ancora oggi esaurire nella risposta a questa domanda. Questo implica che quando un soggetto con disabilità diventa adulto cambia chi si occupa di lui, ma NON CI SI ASPETTA IN ALCUN MODO CHE DIVENTI UN CITTADINO, cioè che si modifichino in qualche modo la sua partecipazione alla società. Muoversi all’interno di uno scenario in cui la vita adulta di una persona disabile ruota attorno alla domanda “Chi se ne occuperà?” non porta a domandarsi come fare a sostenere lei nel diventare collega, vicino di casa, fidanzato, amico ecc. Il “dopo di noi” immagina sostanzialmente di cambiare genitore con un’altra persona ma non consente di cambiare la posizione di “figlio” che la persona ricopre. Si è arrivati al paradosso di accusare i genitori di essere responsabili di questa situazione: le famiglie vengono indicate come soggetti che definiscono relazioni con i figli atipici tali da impedire il loro accesso alla vita adulta. In realtà loro diventano adulti non perché cambia l’atteggiamento dei genitori nei loro confronti ma per l’insieme di esperienze e aspettative sociali e culturali a cui
livello organizzativo poter inserire le persone in un cammino del tutto prevedibile e con una destinazione già nota con grande anticipo è molto più semplice rispetto al predisporre un servizio che fornisca supporti per far vivere a ciascuno la vita che sceglie, nei luoghi e nelle forme che predilige non selezionati tra quelli disponibili per le persone con disabilità di quel territorio. I servizi nati in un paradigma assistenziali erano in grado di accompagnare lo svolgersi dell'esistenza delle persone con disabilità attraverso un sistema di luoghi e relazioni protetto e separato: il servizio frequentato si faceva così contemporaneamente spazio di accoglienza, quotidianità, impegno e socialità; questo spazio però costituiva un percorso di adultità speciale, distaccato, gestito all'interno di una cornice in cui il primo compito era quello di proteggere e custodire. La Convenzione ONU chiede ai professionisti di individuare delle modalità in cui rendere questa libertà e questi diritti praticabili nel mondo di tutti. A questo punto le metodologie classiche di progettazione socio educativa iniziano a rivelarsi insufficienti e non in grado di rispondere ai nuovi paradigmi. E’ qui che nasce la COPROGETTAZIONE CAPACITANTE: nasce sul campo, da un incontro, quello tra un gruppo di professionisti nell'ambito psico pedagogico e di ricercatori universitari e sempre più famiglie e persone che, una volta entrate nel nuovo paradigma, stavano tentando di individuare modi e strumenti per costruire il sostegno una cittadinanza piena per i loro figli. La coprogettazione capacitante nasce, dunque, dalla ricerca di una modalità di incontro con finalità progettuali tra i professionisti, la persona titolare del progetto di vita e la sua famiglia, che fosse in grado di individuare obiettivi, strategie e azioni per sostenere il soggetto con disabilità nel muoversi in ciascuna delle aree del suo disegno esistenziale sulla base di uguaglianza di diritti con gli altri cittadini. È così che la coprogettazione è diventata capacitante: non si tratta solo di definire un progetto ma di costruire quell’opportunità concreta di immaginare e realizzare il proprio percorso di vita. La coprogettazione capacitante, è facile intuirlo, inizia pertanto con l'incontro tra professionisti e persona ed eventualmente famiglia, ma non corrisponde a un momento puntuale che si colloca all'inizio del processo bensì individua un processo che dura per tutto il periodo di accompagnamento. Nella coprogettazione capacitante progettazione e attuazione risultano connessi in modo ricorsivo: moltissimi elementi si chiariscono lungo il tragitto e solo percorrendolo siamo pronti a determinare come proseguire; non potremmo quindi programmare tutto prima di iniziare il nostro percorso. Nella metodologia classica la progettazione si collocava in una fase pre: cioè prima si definisce il progetto poi si attua. Poiché si tratta di un accompagnamento globale della persona in tutti gli aspetti della sua vita, si mettono in conto una serie di variabili non prevedibili così come lo sono gli sviluppi che si possono avere. Non è ragionevole aspettarsi di stabilire un intervento una volta per tutte perché il percorso esistenziale fin dall'inizio è inteso come articolato, accidentato, composto da cambi di direzione, soste, passi avanti e indietro. Invece nella metodologia classica la scelta e l'attuazione delle stesse seguono un modello completamente diverso ispirato al concetto sanitario di compliance = livello di adesione del paziente alla terapia indicata dal dottore. Va da sé che più alto è il livello di compliance meglio è
perché il trattamento indicato dal medico è la soluzione migliore possibile al problema di salute della persona. In realtà si è visto che però un tragitto lineare non è né presunto né auspicato perché c'è sempre la possibilità di cambiare idea, modificare alcune cose, iniziare a lavorare per uno scopo e poi decidere di non proseguirlo più. È importante sottolineare che attraverso la coprogettazione capacitante le persone cercano di assumere LA REGIA DEL PROPRIO PROGETTO DI VITA CHE NON SIGNIFICA AVERE CAPACITÀ DI GESTIRE MA POTERE DI DECIDERE. L'obiettivo della coprogettazione capacitante è sempre duplice: Capacitare le famiglie e le persone con disabilità; Individuare quali azioni svolgere nel corso del loro progetto di vita METODOLOGIA CLASSICA COPROGETTAZIONE CAPACITANTE Prima si definisce il progetto poi si attua. Progettazione e attuazione sono connessi: individua un processo che dura per tutto il periodo di accompagnamento. Concetto di compliance = livello di adesione del paziente alla terapia indicata dal dottore. Un progetto lineare non è né presunto né auspicato perché ci possono sempre essere diversi cambiamenti nel corso di vita della persona disabile. Obiettivo = regista del proprio percorso di vita= capacità di decidere e non di gestire. PROGETTAZIONE INDIVIDUALIZZATA PROGETTAZIONE PERSONALIZZATA Il progetto è sempre fatto insieme alla persona in base alle sue aspirazioni, però scegliendo tra un catalogo di possibilità. Es: centro diurno, lunedì piscina, martedì fisioterapia Coinvolge tutto il contesto e non si parte dal catalogo di proposte ma da quello che la persona realmente vuole. La progettazione personalizzata si declina in COPROGETTAZIONE PERSONALIZZATA = gli scopi e le modalità di sostegno sono determinate insieme alla persona e alla famiglia. L'obiettivo primario della coprogettazione capacitante e sostenere la persona con disabilità e la sua famiglia nella costruzione di un percorso di vita di cui abbiano piena regia.
Questo chiama in causa i diritti che in tutti i servizi di buona qualità sono garantiti ( accudimento, pulizia, salute) ma anche, ad esempio, il diritto alla libertà (cioè l'opportunità concreta di uscire quando lo si desidera anche se non si è in grado di andare in giro da soli), quello di accedere ai servizi della comunità (la banca, la posta, al supermercato). Tutto questo viene sancito come un diritto, come qualcosa che sta in mano alla persona fin da subito e non che viene concesso, ritirato dall'operatore a seconda di valutazioni funzionali, di capacità, di fattibilità. La posizione dell'operatore nella progettazione è quindi al servizio della persona e della famiglia per sostenerle nell'immaginare e definire i contorni del percorso di vita. Il suo compito non è più come in passato stabilire cosa sia meglio per la persona ma accompagnarla dove lei e la sua famiglia desiderano andare in termini di destinazione esistenziali. se allora, nella progettazione educativa classica il lavoro veniva svolto perlopiù da operatori, nella progettazione capacità, nella maggior parte dell'attività di progettazione, tutte le decisioni vengono prese insieme alla persona e alla famiglia. A quel punto l'operatore utilizza la sua professionalità e la sua creatività per suggerire le modalità possibili per raggiungere quegli scopi. Metodologia classica Coprogettazione capacitante Operatore = stabilire cosa sia meglio per la persona. Operatore = accompagnare la persona e la sua famiglia dove desiderano andare in termini di cammino esistenziale. Lavoro svolto perlopiù da operatori Tutte le decisioni vengono prese assieme alla persona e alla sua famiglia, l’operatore utilizza la sua professionalità per creare percorsi per raggiungere gli scopi presi assieme. La struttura metodologica della progettazione fa sì che il ruolo dell'operatore non si costruisca più attraverso l'articolazione di un sistema di risposte ma sulla base di uno scheletro di domande chiave. Chi l'ha deciso? E’ la prima domanda chiave della coprogettazione capacitante: questo vuol dire che ogni scelta, ogni gesto, ogni azione che l'operatore compie devono essere volti primariamente a restituire il potere decisionale all'individuo, alla sua famiglia. Un'altra domanda che nel corso della coprogettazione capacitante appare tante volte come importante è SE FOSSI IO? Una delle principali preoccupazioni riferite dagli operatori che si avvicinano a questa metodologia è che la famiglia possa sbagliare. La coprogettazione capacitante poiché si colloca nel paradigma dei diritti, presuppone che non ci debba essere una differenza sostanziale tra l'esistenza delle persone a sviluppo tipico e quelle delle persone con disabilità; le seconde devono avere la possibilità di costruire il proprio progetto di vita per prove ed errori, proprio come avviene per gli altri.
Nessuna decisione dell'operatore risulta senza implicazioni: o l'operatore lascia fare alla famiglia, trasmettendo l'idea che siano i suoi componenti ad avere l'opportunità e la capacità di operare le scelte che li riguardano, oppure agisce personalmente, insinuando così che è lui ad avere il potere di stabilire chi partecipa al processo di costruzione del progetto di vita perché è implicito che abbia una visione migliore della loro al riguardo. Ogni preferenza può essere considerata l'equivalente dell' imboccare un bivio su una strada, sulla base di ciò che si predilige cambierà ciò che si vede, che si incontra, le esperienze che si fanno le successive scelte da effettuare. La coprogettazione capacitante però non può essere descritta nei termini di una metodologia rigida. L'operatore per poterla mettere in campo non è chiamato a memorizzare una serie di step ma è necessario che acquisisca le adeguate modalità di ragionamento. In primo luogo è indispensabile che l'operatore sia molto preparato sul paradigma dei diritti: soltanto conoscendo a fondo tutte le implicazioni, i presupposti e le declinazioni potrà, infatti, utilizzarlo concretamente come bussola per le decisioni operative. Il secondo asse è quello della piena cognizione rispetto delle conseguenze delle proprie scelte, azioni, parole gesti in termini di capacitazione dunque di potere. Quindi deve sempre tenere conto che svolge un ruolo di potere e che dalle sue azioni, scelte e gesti dipenderanno delle conseguenze. Ci troviamo innanzitutto davanti all'urgenza di mettere a punto strumenti e modalità per incontrare la persona con disabilità e la sua famiglia in modo autentico. Il professionista non deve collocare i comportamenti delle famiglie dentro un modello interpretativo ma mettere in campo la sua competenza nell'ambito di un incontro che costituisce esso stesso la propria finalità conoscersi e mettere in comune visioni e idee. Il professionista è quindi chiamato a sostenere e ad accompagnare la persona e la famiglia in un processo di capacitazione quindi di acquisizione progressiva di potere, idee su di sé e sulla propria esistenza e la consapevolezza della possibilità di autodeterminarsi. L'operatore potrà assolvere a questo compito soltanto se sarà in grado di mettere in campo fin dal primo momento una modalità di incontro autentica pulita da valutazioni e giudizi. Bisogna essere creativi che significa in sostanza riuscire a concepire per sé un futuro non convenzionale: un avvenire pensabile positivo, anche laddove le condizioni correnti presentassero elementi per scoraggiare questo sogno. Compito primario dell'operatore è quello di sostenere le persone a riappropriarsi della dimensione del futuro: un futuro di vita piena nel mondo di tutti, un futuro non del tutto prevedibile, non rappresentabile come un luogo o un soggetto che accudisce, ma che deve essere necessariamente figurato come un sistema articolato di relazioni. La connessione al futuro costituisce una base imprescindibile affinché il processo di capacitazione conduca effettivamente verso una progettazione globale del percorso di vita: è importante la connessione al futuro perché consente al processo di capacitazione di condurre effettivamente verso una progettazione globale del percorso di vita.
Metodologie dialogiche Metodologie classiche Principale strumento è il dialogo aperto = l’operatore ha bisogno dell’altro per vedere il significato Discorso professionale classico è sostanzialmente monologico = significato che esiste a priori e che deve essere visto dall’operatore Importante il punto di vista dell’operatore e la dimensione della rete Importante solo il punto di vista dell’operatore Le pratiche dialogiche hanno mostrato in questi anni importanti potenzialità in termini sia di efficacia che di ampiezza dell'applicazione. I cambiamenti che le pratiche dialogiche sono in grado di generare si sono dimostrati negli anni, sia per profondità che per estensione, più intensi rispetto a quelli portati dalle metodologie classiche. Anche nell'ambito dell'accompagnamento alla vita adulta delle persone con disabilità si sentiva l'esigenza di mettere a punto metodologie e approcci che fossero maggiormente rispondenti da una parte alle nuove indicazioni portate dalla convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità e, dall'altra, hai bisogni e desideri delle famiglie delle persone stesse. La coprogettazione capacità non intende le pratiche dialogiche come un metodo da applicare in modo rigido ma ne assorbe alcuni elementi declinandoli in maniera specifica. Differenze tra dialogo aperto= metodologie dialogiche e coprogettazione capacitante: La principale consiste nel fatto che il dialogo aperto è una pratica a vocazione terapeutica, mentre la coprogettazione capacitante può essere anche uno strumento per il sostegno di un percorso di vita che per ragioni sociali, di contesto o personali richiede di essere supportato, per un periodo o per sempre. Altra differenza: riferimento alla dimensione dei diritti e, di conseguenza, della libertà che nelle pratiche dialogiche non costituisce un elemento chiave, mentre è fondativo nella progettazione capacitante: in questo senso, le pratiche dialogiche si rivelano sostanzialmente compatibili anche con una presa in carico all'interno di un servizio chiuso ad esempio nascono in un ospedale psichiatrico mentre la coprogettazione capacitante per essere efficace ha bisogno di potersi muovere nello spazio del mondo di tutti. Un aspetto in cui la coprogettazione capacitante risulta molto vicino alle pratiche dialogiche è sicuramente costituito dal modo di intendere ed utilizzare la rete. Non soltanto a una visione di essa come possibile risorsa per risolvere un problema, ma considera la rete della persona come un elemento chiave per costruire ricostruire insieme i significati percorsi di quell'esistenza. Dal punto di vista delle pratiche dialogiche cominciare subito a parlare della situazione in termini di rete consente all'operatore di non immaginare, pensare, discutere, in nessun momento del processo, della persona fuori dalla sua rete.
La modalità con cui gli individui vengono usualmente descritti nelle cartelle psicosociali (metodologia dialogica) comportano una descrizione delle sue caratteristiche in maniera assoluta assumendo, cioè, che li si possano efficacemente rappresentare senza fare costante riferimento al sistema di interazioni in cui sono perennemente immersi. Viene fuori la metafora del disegno di una città in cui è sempre e solo l'interessato a essere colorato, mentre tutti gli altri personaggi restano in bianco e nero. Nella coprogettazione capacitante, invece, la descrizione della persona viene fatta tenendo conto delle sue interazioni, della sua famiglia e del contesto in cui è immersa. Raccogliere il punto di vista delle famiglie e della persona stessa in questa rappresentazione è fondamentale: illustrare la rete è il modo spontaneo che chiunque ha di narrare la propria quotidianità e attraverso questa la propria esistenza. Se invece intendiamo la persona sempre all'interno della sua rete, questo significa che la vediamo calata in un sistema di relazioni contesti ed esperienze e per descriverla al meglio avremmo bisogno di farci mostrare dall'altro tale sistema. In un simile scenario avremo necessità dello sguardo della persona, del familiare dell'altro significativo che su questo aspetto è più competente dell'operatore. La descrizione che si attiene di una persona se la si pensa e se ne parla sempre all'interno della sua rete e dei suoi contesti di vita è molto più ricca e soprattutto molto meglio utilizzabile per definire dei soggetti ad hoc e dunque effettivamente personalizzati ed efficaci. E quindi sostanzialmente sterile la descrizione della persona in termini assoluti mentre ne serve una che sia sempre in è situata nel tempo e nello spazio cioè una descrizione della persona integrata nella sua rete. Questa esigenza è dettata dal paradigma della Convenzione ONU che modifica la domanda che sta alla base delle progettazioni: non ci si chiede più se un individuo riesce ad accedere al mondo di tutti, ma come si può agire per sostenerlo nel farlo. Se descriviamo la stessa persona calata nei suoi contesti di vite, nella sua rete, infatti, potremo ottenere una rappresentazione molto più articolata e molto meno statica. Ogni azione e situazione vengono descritti in questo modo come composte da più termini: sempre almeno da due attori e un contesto. L'operatore non è più quello che detiene la conoscenza e il linguaggio utile alla descrizione: il linguaggio corretto per descrivere la vita quotidiana della famiglia e della persona è quello della famiglia e della persona. Metodologie dialogiche Coprogettazione capacitante Dialogo aperto = pratica a vocazione terapeutica Dialogo aperto = strumento per il sostegno di vita Individuo descritto in modo assoluto = rappresentare senza far riferimento al suo ambiente di interazioni Individuo descritto tenendo conto delle sue interazioni Conseguenza = descrizione poco ricca Conseguenza = descrizione molto ricca Un'altro degli elementi chiave delle pratiche dialogiche è LA POLIFONIA = DIALOGICITA’. Sulla dialogicità è fondamentale essere chiari essere dialogici non significa essere dialoganti. Nelle pratiche dialogiche la difficoltà che l'esistenza della persona sta attraversando diventa l'opportunità per creare e ridefinire il tessuto di storia e, di identità, relazioni che costruiscono il sé e il mondo sociale.
La tolleranza dell'incertezza proposta tra gli elementi chiave delle pratiche dialogiche ci permette in primo luogo di allargare il campo di descrizione: ci sembra che descrivere a priori e a fondo una persona con metodi e tecniche scientifici sia una condizione per poter capire cosa quella persona può fare, cosa è giusto per lei, come sostenerla. In realtà la coprogettazione capacità integrando le dimensioni di conoscenza, di progetto e di azione nella vita quotidiana, si avvicina alle dimensione esistenziale. Anche il diritto all'incertezza, la possibilità di tentare, cambiare idea, modificare il corso della propria vita si fonda sull'uguaglianza con gli altri. Le pratiche dialogiche partono dalla definizione congiunta del problema e delle soluzioni possibili in modo polifonico corale senza rango. Per riuscire a stare all'interno di una definizione del problema di tipo polifonico c'è bisogno che sia presente un alto grado di tolleranza dell'incertezza a livello sia organizzativo che di competenza relazionale dell' operatore. La tolleranza dell'incertezza, di fatti, modifica la posizione di quest'ultimo, che non si trova più, come avviene nella progettazione classica, con il compito di governare e gestire i processi ma come quello di favorire la dialogicità: ad esempio egli non darà la parola a colui che porta al punto di vista che valuta più adeguato ma farà attenzione che tutti abbiano la stessa posizione e possibilità di parlare; non giudicherà le cose che le persone dicono neppure nella sua mente, neppure positivamente ma riporterà i punti di vista di tutti. Questo processo definisce il significato stesso di SICUREZZA: la sicurezza qui è quella dell'ascolto, della risposta della legittimazione. È l'individuo a dover essere sicuro che ciò che dirà verrà accolto, ascoltato e non giudicato né interpretato: non si tratta di far sentire tutti ascoltati così da migliorare la compliance ma di mettere le persone in condizione di far emergere le loro risorse dando loro il potere e la libertà effettiva di usarle per gli scopi che loro stessi definiscono. Nel corso della progettazione ciò avviene in tanti modi: sono moltissimi gli accorgimenti che l'operatore deve mettere in campo per concretizzare un simile processo Uno dei principali è la legittimazione del linguaggio e della maniera in cui le persone parlano di sé della propria vita dei propri familiari : non esiste un criterio giusto per definire un soggetto, un comportamento un evento. Il professionista non traduce, ne interpreta quello che la persona e la famiglia dicono ma li sostiene nel produrre il proprio modo per dire le cose. La tolleranza dell'incertezza consente quindi al professionista di mettere in pausa l'ansia di descrivere correttamente pulendo il campo da ogni pretesa di oggettività, riprendendo lo scopo con cui nasce la coprogettazione capacitante, cioè accompagnare gli individui a condurre il tipo di vita che desiderano. Il potere è uno dei temi importanti quando si parla di dialogicità di conseguenza bisogna anche parlare di RISCHIO. L'incertezza non è necessariamente uno spazio di rischio inteso come potenziale danno. Ma è uno spazio dove il progetto germoglia, prende forma, in cui la persona si attiva per cercare autenticamente una risposta, che è un elemento di scoperta di cui tutti abbiamo bisogno per procedere e che di conseguenza può anche stupire. A tal proposito bisogna resistere a una tentazione che spesso gli operatori sociali fanno propria che è quella di bonificare prevenire i rischi. L’irrigidirsi dell'atteggiamento dell'operatore quando si percepisce un rischio è uno dei principali ostacoli all'attuazione delle pratiche dialogiche. Nella progettazione capacitante la situazione è analoga, a volte gli operatori che fanno progettazione socio educativa coltivano la fantasia di poter sostenere l'esistenza di una persona eliminando
completamente la dimensione del rischio. Questo è un residuo culturale del paradigma assistenziale relativo alla disabilità, nel quale il compito del professionista non era sostenere la cittadinanza ma custodire e proteggere l'individuo. Nel fare coprogettazione capacitante dobbiamo metterci nella posizione di ignorare i problemi? Naturalmente no, anche qui ci vengono in aiuto le pratiche dialogiche. Non devi parlare mai di problemi, ma sempre di preoccupazioni. Nel corso della progettazione ciascuno è libero di portare le sue preoccupazioni in merito agli ostacoli e ai rischi del percorso. Se un operatore parla alla famiglia di un problema che c'è , si sta ponendo in un quadro positivista: il problema esiste, egli lo osserva e lo riferisce, parlare di una preoccupazione, invece, significa introdurre la dimensione della soggettività, quindi non un elemento preoccupante in assoluto ma che però preoccupa il singolo. Il fatto di poter presentare la propria situazione e, in particolare le proprie preoccupazioni, con le parole proprie costituisce un elemento molto importante della dialogicità, nonche un aspetto che sta a cuore dell'autodeterminazione. Non ci sono parole più giuste per dire, sono tali quelle che la persona in quel momento sceglie, che vengono assunte e riprese dall'operatore. Per iniziare a progettare insieme necessario INCONTRARSI. Questa affermazione, che appare del tutto banale, non lo è affatto per chi, operatore, persona familiare, conosce le difficoltà dei percorsi di progettazione che coinvolgono gli individui in carico ai servizi sociali ed educativi. le metodologie e i modelli organizzativi che attualmente risultano più diffusi prevedono che siano gli operatori a definire gli obiettivi, gli strumenti e la direzione del percorso di presa in carico e si muovono strutturalmente nella dinamica diagnosi -intervento - compliance. Il professionista descrive, valuta e propone, la famiglia e la persona possono decidere se aderire o rifiutare. Nel progettare con la famiglia, allora, abbiamo detto che prima di tutto è indispensabile incontrarsi. Quando ciò avviene tra operatori e famiglie, nessuno dei due soggetti è al grado zero di conoscenza, anche se non si sono mai visti prima. L’operatore si è già imbattuto in precedenza in altri individui, di cui ha letto e studiato, e la famiglia ha già conosciuto altri operatori. Quindi fin dal colloquio iniziale, l’operatore deve lavorare per generare uno spazio di assunzione di regia per la famiglia e per la persona. E’ solo attraverso di essi che si decide come procedere, che direzione prendere, se continuare a seguire la direzione scelta in precedenza oppure no. I colloqui non vengono stabiliti a priori ma ciascuno degli attori deve poter richiedere un colloquio quando ne sente il bisogno o lo desidera. Nella coprogettazione capacitante l’incontro avviene attraverso relazioni dialogiche. Che sono per definizioni “relazione aperta, prima dell’interesse di cambiare l’altro”.
diritti e delle loro competenze finalizzata all’assunzione della regia del percorso di vita dei figli: lavora per sostenere le famiglie a costruire l’avvenire che desiderano e che sognano per i loro bambini. La dimensione del futuro per le persone con disabilità è problematica: fin da quando il bambino con disabilità nasce, purtroppo è ancora diffusa tra i professionisti la pratica di limitare lo sguardo al domani dei genitori. La vita adulta, i sogni e le speranze sono solitamente rimandati ai genitori sotto forma di impossibilità o di percorsi già segnati. Ci si riferisce al futuro dei bambini con disabilità parlando di “soluzioni” come se il domani non potesse essere qualcosa di desiderabile. In questo modo ogni spinta al futuro viene collocata nell’area della mancata accettazione della disabilità: invece l’Officina della vita indipendente è un processo che sostiene un genitore nel riorientare lo sguardo all’avvenire. Focalizzare il futuro desiderato può risultare talvolta complesso in quanto entrano in gioco numerosi fattori. Oltre al già citato atteggiamento degli operatori nei primi anni del bambino che tende a spegnere le speranze per il domani spesso le persone e le famiglie sono immerse in un immaginario sociale relativamente alla adultità delle persone con disabilità che ha opzioni molto ridotte. Spesso le persone con figli disabili riportano di avere chiaro di non volere, per l'avvenire del loro figlio, quello che ci vedono nelle vite degli adulti con disabilità, ma non riescono ad individuare quale sia, invece, il loro desiderio. Un giovane a sviluppo tipico avrà tempo di elaborare il proprio futuro: penserà forse che non vuole sposarsi giovanissimo come quel suo cugino, che vorrebbe avere un lavoro che lo fa viaggiare come quell'altra zia, avere tanti figli come quel vicino di casa. Per le famiglie in cui c'è una disabilità gli esempi sono molti meno: non esiste un immaginario diffuso e multiforme di vite quotidiane, ma sembra che le possibilità siano ridotte a una vita quotidiana da disabile fatta di centri specializzati, istituzioni residenziali, e che l'unico modo per sfuggirvi sia assurgere all'olimpo dei superabili, ovvero di quei ragazzi disabili che riescono a superare i propri limiti come per esempio il ragazzo con la sindrome di Down che si laurea o il giovane senza le gambe che scala le montagne. Nella società i percorsi appaiono ancora largamente segnati per le persone con disabilità: la comunità, il centro diurno. Sembra quasi che sia più facile ottenere il passaporto da supereroe che accedere alla normalità una casa, un lavoro, una quotidianità da adulto. Un altro aspetto importante è che spesso tra gli operatori vi è un'abitudine diffusa di rappresentare e rappresentarsi l'avvenire delle persone con disabilità sotto forma di luoghi e servizi speciali. Le famiglie si ritrovano frequentemente a che fare con professionisti che spesso vivono nell'urgenza di rispondere a un bisogno in modo puntuale, e per questo, propongono come soluzioni per il futuro alcune tra le opzioni che hanno a disposizione ovvero i diversi servizi. Questo blocca di fatto la possibilità di sognare questo futuro in un campo aperto. Un altro aspetto che limita e rende difficile immaginarsi in futuro è quello che potremmo chiamare L'EQUIVOCO DELLE COMPETENZE: questo vuol dire che le persone oggi vengono orientate tra i vari servizi basandosi sulla cosiddetta gravità; ci sono servizi per persone considerate più un pericolo per la società e servizi adatti a persone considerate meno pericolose per la società. Questo vuol dire che ci sono dentro un po’ delle cose che la persona riesce a fare senza supporto, scelte più o meno arbitrariamente tra quelle che sono valutate necessarie per
raggiungere un funzionamento sociale standard e poi ci sono alcuni comportamenti/atteggiamenti di reazione all'istituzione: più questi sono disturbanti per l'ordine sociale, più un soggetto viene considerato grave. Completano il concetto di gravità, inoltre alcuni elementi la cui presenza/assenza modifica moltissimo la valutazione come per esempio l'accesso alla lingua orale. La combinazione di questi fattori viene di solito elaborata dagli operatori nel concetto di gravità, che ha il potere di orientare la persona verso il futuro adatto a lui. L'avvenire per le persone con disabilità, dunque non è inteso come quello desiderato ma come un'unione tra quello adatto è quello a cui la persona riesce ad accedere. Le famiglie sono abituate fin dai primi contatti con il servizio a non poter scegliere in base ai desideri, ma dover accettare che quello che il figlio potrà fare dipenderà sostanzialmente da quanto i suoi comportamenti saranno adeguati e dal suo livello di competenza. Il modo in cui descrivo e rappresento l'altro, la sua esistenza sono il punto di partenza di tutto il tragitto e il discorso che si farà. questo passaggio non è mai neutro e avviene in maniera molto precoce e per questa ragione che si è posta molta attenzione all'incontro iniziale, ma ancor prima ai contatti precedenti, anche indiretti, via telefono ed email. Ed è anche per questo che è impossibile guardare alla pratica dialogica come un metodo da introdurre ad un certo punto , sperando che possa fornire una soluzione a un problema già definito, già descritto, già oggetto di discorso e nominato. È impossibile attuare una pratica dialogica nel bel mezzo di una relazione già avviata a proposito di un problema già descritto su cui ciascuno ha idee e posizioni. Non è pensabile attuarla soltanto alcune tra le volte che ci si incontra ma è necessario che pervada tutta la relazione, anche quando non ci si vede. Lo strumento principale utilizzato per la definizione del percorso e degli obiettivi è ispirato ai dialoghi sul futuro è chiamato AREE DELLA VITA : lo scopo primario è fondare tutta la progettazione sul sogno della famiglia della persona disabile, autenticamente. Si tratta di un elemento cruciale sia dal punto di vista teorico sia dal punto di vista operativo. Questo vuol dire che ci poniamo nella prospettiva di accompagnare le persone verso un certo tipo di vita, con una certa misura di impegno, una certa qualità di relazioni, legami e interessi. Risulta una forzatura immaginare una modalità progettuale in cui questa vita, questi legami e questi interessi siano definiti da soggetti diversi dalla persona e dalla sua famiglia. Lo strumento delle aree della vita, non è statico, ma si tratta più che altro di un supporto per il pensiero dell'operatore della famiglia della persona con disabilità. Esso nasce da diverse esigenze operative: Sostenere il recupero di una dimensione del futuro che si configuri come spazio aperto e non come soluzione; Uscire dalla trappola di avere dei requisiti per poter accedere alla vita adulta; Disegnare l'obiettivo lontano che fa da guida al progetto; Sostenere il progetto di acquisizione del potere di determinare il corso della propria vita. Era indispensabile liberare l'immaginario dei genitori e dal peso della prestazione, della competenza, della capacità che manca sempre, che è costantemente carente. Così dopo tanti incontri è stato creato lo strumento delle aree della vita per restituire il respiro di un'esistenza
ci si trova un punto del processo di coprogettazione che costituisce uno snodo delicato e chiami in causa fortemente la professionalità dell'operatore. Il modello assistenziale ha portato alla diffusione sostanzialmente univoca degli schemi operativi fondati sullo SHELTER. SHELTER = offrire un luogo di riparo al fine di proteggere. Per gran parte dell'Ottocento, e per tutto il 900, questo modello ha fatto sì che il lavoro sociale fosse sistematicamente fondato su alcune tipologie di intervento basate sulla finalità ombrello di protezione/custodia. L’offerta di un luogo protetto si è nel tempo cristallizzata come la prima risposta, all'interno della quale potevano poi essere declinate progettualità e obiettivi. La modalità prevalente di intervento quando si ha a che fare con le persone con disabilità è inserirle in un ambiente protetto. A livello trasversale, dunque, dalle leggi alle politiche fino alle pratiche educative, alla domanda di vita adulta si replica, la gran parte delle volte con un luogo protetto e separato: una comunità, un gruppo appartamento, un cohousing, una casa palestra. Ne è un esempio anche il lavoro protetto che costituisce di frequente, ancora oggi, la prima scelta quando si tratta di accompagnare all'inserimento lavorativo di persone con disabilità. Il modello educativo che nasce dallo shelter è IL MODELLO TRAIN AND PLACE = le persone con disabilità non possono vivere nel mondo di tutti così come sono, ma per poter essere inseriti in contesti di cittadinanza reale devono prendere prima una serie di competenze e raggiungere alcuni requisiti di base. Solo dopo possono essere messi in situazioni autentiche di tipo professionale, di vita indipendente, di socialità e di cittadinanza, in cui potranno usare l'abilità che hanno preso in un contesto protetto. Il primo movimento è quello di indirizzarla allo specifico contesto protetto nel quale le verranno insegnate l'abilità necessarie: è un individuo che desidera lavorare?, c'è un percorso di lavoro protetto per vedere se ce la fa; se sta diventando adulto, c'è la palestra di autonomia per insegnargli abilità e poi sulla base della stima dei risultati ottenuti, scegliere quale tipo di ulteriore ambiente protetto sarà la sua casa. La letteratura è univoca nel definire inefficaci le metodologie e i servizi che si muovono in un paradigma train and place per il raggiungimento di traguardi di vita adulta, cittadinanza e vita indipendente. Questi modelli definiscono un percorso graduale protetto, detto CONTINUUM OF CARE, delineati in modo che le persone possano progredire lentamente attraverso situazioni di formazione per tappe successive, pensate per avvicinarsi man mano all'obiettivo finale. Nel continuum of care, le persone non sono esposte a richieste situazionali autentiche fino a che non è l'operatore a valutare che sarebbero in grado di farvi fronte. Abitualmente sono previste diverse fasi di addestramento in ambienti artificiali (le cosiddette palestre di autonomia, laboratori, tirocini in contesto similavorativo) i quali connettono i due principali scopi del paradigma assistenza da cui derivano, cura e custodia e quindi, vanno da più sicure-più restrittive al mondo reale.
è noto da tempo che i programmi di transizione alla vita adulta costruiti sulla base di questo schema non sono efficaci e soprattutto non sono in grado di sostenere tutte le persone, ma solo quelle che hanno la possibilità di sviluppare determinate capacità. Questo non deve stupirci poiché i modelli operativi Train place nascono all'interno di un paradigma che non aveva come finalità la vita piena nel mondo di tutti, ma la custodia e la protezione. Il continuum of care resta tanto diffuso anche oltre 10 anni dopo l'approvazione della Convenzione ONU. Una delle ragioni di questa resistenza può essere probabilmente ricercata a livello culturale poiché il continuum of care tende a riprodurre il modello in cui l'esigenza primaria è custodire la persona in un luogo protetto, lasciando che affronti esclusivamente le dimensioni dell'esistenza che ha in precedenza dimostrato di poter gestire: Il principale punto fragile che la letteratura individua nel paradigma Train and place, nella modalità shelter in generale, è l'assunto relativo al trasferimento di competenze. Nella migliore delle ipotesi, infatti, le persone inserite in un contesto protetto raggiungono l'obiettivo di acquisire l'abilità più rilevante per vivere, lavorare, socializzare, in un ambiente supervisionato, riparato e dedicato che non ha corrispondenti nel mondo reale. L'idea secondo cui una volta apppresa una competenza in un contesto protetto la persona sarà automaticamente in grado di trasferirla in circostanze autentiche non è supportata da evidenze scientifiche ed è smentita, inoltre da alcune statistiche, ad esempio quelle che mostrano gli esiti dei percorsi di inserimento lavorativo e di vita indipendente condotti con queste metodologie. A livello di acquisizione di competenze, inoltre, la letteratura evidenzia come la motivazione fornita dal contesto autentico non abbia corrispondenti possibili in uno protetto e come, una risposta di tipo shelter funzioni primariamente come abbattitore della motivazione della persona. Oltre a questi elementi, la letteratura sottolinea l'importanza della dimensione relazionale : nel modello per gradi successivi di protezione, ogni transizione contiene per la persona la richiesta implicita di un adeguamento significativo a livello relazionale. A ogni step di competenza acquisita gli individui cambiano ambiente, gruppo, tagliando i loro legami e sostituendo queste connessioni con un nuovo gruppo in un diverso ambiente. Questo adeguamento se per le persone a sviluppo tipico può costituire un elemento stressante, diventa una barriera insormontabile per quelle la cui disabilità insiste proprio sulla dimensione relazionale. Nonostante l'ampia letteratura che ne dimostra l'inefficacia, le pratiche shelter con connotazione train and place fondano politiche e modelli operativi largamente sedimentati : vengono presi in esame le caratteristiche della persona, in base a queste si definisce l'intervento e solo una volta iniziato l'inserimento vengono stabilite le finalità. Se ci si sofferma un attimo a pensarci è un ragionamento al contrario che blocca tutto il processo: se definisco prima lo strumento ovvero l'intervento e poi l'obiettivo difficilmente potrò riflettere sull’efficacia. Si tratta di residui automatizzati del paradigma di accudimento-custodia in cui lo scopo in realtà esisteva, era dato a priori e non era individualizzato, il mandato dei servizi era quello di prendersi cura e occupare il tempo delle persone con disabilità. Sul piano letterario abbiamo detto che queste pratiche devono essere superate, sul piano pratico possono essere superate se l’operatore si riprendere una forte creatività nel scrivere il progetto educativo.