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Il processo diagnostico in psicologia, evidenziando l'importanza di un approccio integrato che considera non solo i sintomi, ma anche il funzionamento mentale del paziente. Vengono presentati diversi strumenti e metodi di valutazione, tra cui il pdm (psychodynamic diagnostic manual) e la swap (schedule for the assessment of personality). Anche il controtransfert, la risposta emotiva del terapeuta al paziente, e come questo possa essere utilizzato per una diagnosi e un trattamento più efficaci.
Typology: Lecture notes
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La psicodiagnostica riguarda la prima fase del percorso clinico, che inizia con il primo colloquio, comprende la fase di testing e finisce con la restituzione e la stesura del report. Ciò di cui ci occupiamo in psicodiagnostica è la comprensione della problematica del paziente e del paziente stesso. L’ obiettivo della psicodiagnostica è mettere in pratica un lavoro tecnico e clinico che permetta di passare dal riferito sintomatologico del paziente ad una comprensione del suo funzionamento. Gli assi cardinali del lavoro psicodiagnostico sono la comprensione e l’ orientamento del trattamento. Bisogna inquadrare la diagnosi, l’etichetta, all’interno della comprensione del significato che il sintomo ha per quella persona e per il suo funzionamento, contestualizzandolo. Per questo, dobbiamo andare oltre alla logica della psicologia clinica DSM-oriented, perché i criteri diagnostici del DSM si riferiscono solo ai comportamenti osservabili e non danno indicazioni al trattamento. Il lavoro diagnostico in ambito psicologico va oltre la diagnosi nosografica, nonostante la includa in quanto definita “oggettiva”: beneficiamo dell’approccio nosografico-descrittivo, ma dobbiamo utilizzare anche un approccio interpretativo-esplicativo. Dobbiamo coniugare la tecnica oggettiva al ragionamento clinico , pur sempre mantenendo il rigore, ma essendo consapevoli di trovarci in un campo probabilistico in cui vengono formulate delle ipotesi riguardo ad un campo non osservabile (intrapsichico). La diagnosi consiste nella “spiegazione” del caso clinico , in cui il quesito diagnostico si pone in termini di probabilità e la spiegazione avviene attraverso la raccolta dei dati, l’impiego di ipotesi e la verifica delle stesse. Per rispondere alla domanda diagnostica di comprensione e di trattamento dobbiamo interrogarci su altri temi di funzionamento del paziente : i punti di forza e di debolezza, l’organizzazione/struttura di personalità, le caratteristiche dei pattern interpersonali che il paziente introduce, i meccanismi di difesa, le strategie di coping. Il testing ci offre dei dati che sono di natura oggettiva e qualitativa che ci permettono di sintetizzare quello che emerge dal contatto con il paziente, permettendoci anche di falsificare o verificare le ipotesi per andare a terminare il lavoro rispetto formulazione ipotetica sulla comprensione del dolore che il paziente porta. La comprensione profonda del paziente e del suo malessere permette di orientare il trattamento , obiettivo imprescindibile del nostro lavoro. Non possiamo pensare di concludere il processo diagnostico solo con una categoria nosografica, dobbiamo comprendere profondamente il paziente anche oltre l’aspetto psicopatologico, per capire quale sia il trattamento giusto e su quali aree di funzionamento il trattamento debba insistere. Tuttavia, non tutte le consultazioni esitano con un’indicazione al trattamento ; difatti, può anche essere risolta la questione della comprensione del significato e si può arrivare a dire al paziente che non ha bisogno del trattamento psicoterapico. È comunque un aspetto integrante della valutazione.
Nel processo diagnostico noi ci muoviamo a partire da un paradigma di pensiero ateorico, oggettivo, legato all’osservazione di fenomeni comportamentali, segni e sintomi clinici riferiti dal paziente, che ci aiutano a costruire una lettura formulata dal DSM nosografico-descrittiva. Su questo livello di lettura noi dobbiamo poggiare il livello interpretativo-descrittivo , che ci aiuta a comprendere non solo il fenomeno clinico, ma anche a formulare delle ipotesi che ne spiegano il significato. La diagnosi all’interno di una prospettiva interpretativa-esplicativa, di inclusione della dimensione relazionale, non può mai prescindere dal senso soggettivo (consapevole o meno) del clinico. Tuttavia, dobbiamo muovere la nostra soggettività in un campo in cui venga preservata la pulizia del dato. L’approccio nosografico-descrittivo porta un lessico condiviso sul significato che ha quell’etichetta diagnostica (aspetto di forza), ma non ci dice nulla sugli aspetti unici di quel paziente (severità della patologia, storia di vita). Quando si vuole offrire un aiuto al paziente però, conoscere solo la sua etichetta diagnostica non è sufficiente. Né un approccio nosografico né un approccio interpretativo sono sufficienti l’uno senza l’altro, devono essere integrati. Bisogna far convergere le dimensioni di specificità (prospettiva idiografica) e di generalizzabilità (prospettiva nomotetica) del caso clinico.
processo diagnostico viene vissuto dal paziente come un momento in cui si sente accolto, ascoltato e accompagnato verso una comprensione di sé stesso. In questo modo c’è più possibilità che il paziente accolga la proposta di cura. Perché la diagnosi psicologica è differente da quella medica? Noi come i medici abbiamo bisogno di strumenti : lo strumento di indagine strumentale per lo psicologo è il test (equivalente di una radiografia, di un esame del sangue in campo medico). Il test è una valutazione che si basa su una performance all’interno di un criterio che mi dà un dato oggettivo. Senza dati oggettivi non posso pretendere di formulare una diagnosi valida. La diagnosi in psicologia clinica non è equivalente alla diagnosi in ambito medico. Per questo motivo al termine diagnosi - di stampo prettamente medico - si preferisce quello di assessment o di formulazione del caso. Il termine assessment fa riferimento a una modalità di accertamento in cui si delinea la natura del problema, ma si cerca anche di chiarire i punti deboli e i punti forti del paziente.
Il processo psicodiagnostico consiste in un minipercorso costituito da piccole fasi (più di 1 incontro ma meno di 5). È necessario informare il paziente di questa procedura su più fasi perché: permette al paziente di contenere l’angoscia relativa al bisogno di comunicare tutto ciò che lo riguarda nel più breve tempo possibile; permette al clinico di osservare come la persona distribuisce nello spazio di più incontri i vari aspetti della sua vita e i rapporti gerarchici tra questi; trasmette al paziente, in modo chiaro, il senso di un’effettiva presa in carico da parte del clinico. L’obiettivo del percorso diagnostico non è la diagnosi, ma è conoscere il paziente, la persona. La diagnosi è comunque una fase del nostro lavoro, ma non si esaurisce con essa. Secondo Jaspers la diagnosi è “l’ultima delle preoccupazioni dello psicologo”: conoscere la diagnosi non vuol dire conoscere il paziente. I DIVERSI TIPI DI DIAGNOSI Diagnosi: “riconoscere attraverso”. Processo per mezzo del quale cerchiamo di conoscere il funzionamento psichico di un determinato soggetto a cui corrisponde una denominazione basata su una terminologia condivisa dalla comunità scientifica.
1. DIAGNOSI NOSOGRAFICO-DESCRITTIVA: Anche detta diagnosi DSM-oriented (attualmente DSM 5-TR). La diagnosi si basa su informazioni riferite in modo esplicito oppure su comportamenti osservabili. Ogni patologia è descritta da una lista di criteri che fanno riferimento a comportamenti, segni e sintomi clinici osservabili, con cut-off (diagnosi a metà tra la monotetica e la politetica). Il DSM è stato costruito secondo dei principi ateorici : l’obiettivo di questa classificazione diagnostica e della diagnosi nosografico-descrittiva in generale è tendere ad una classificazione i cui criteri prescindano dalla conoscenza di qualunque modello teorico. Questi prinicipi hanno fatto a lungo propendere per l’idea che questa sia la classificazione ideale. Non abbiamo bisogno di un grado di interpretabilità, dobbiamo solo far coincidere quello che ci dice il paziente con i dati oggettivi del DSM. Essendo uno strumento utilizzabile da professionisti di formazione e orientamento teorico diversi, il DSM diventa una tassonomia dei disturbi. La diagnosi nosografica è quella che scientificamente risulta più solida. Tuttavia, nonostante DSM si proponga come sistema diagnostico ideale, prevede diverse criticità: Comorbidità: in moltissime situazioni abbiamo delle condizioni di comorbidità. L’area più sfidante da questo punto di vista è la diagnosi con i disturbi di personalità, in quanto si presentano spesso in comorbidità con tanti altri disturbi del DSM. Il disturbo di personalità, tra l’altro, non è condizionato da dati osservabili, ma si identifica attraverso i tratti maladattivi stabili che caratterizzano l’individuo. La comorbidità può essere dovuta al fatto alcune fenomenologie cliniche corrispondono a più categorie diagnostiche e non sono quindi chiaramente distinguibili. L’approccio oggettivante del DSM, insieme all’introduzione di un numero-soglia di sintomi necessari alla diagnosi, rischia di raggruppare sotto un’unica etichetta diagnostica dei quadri clinici eterogenei. Dimensionalità : per avere una diagnosi, secondo il DSM, la condizione clinica deve impattare sul funzionamento quotidiano del paziente, non ci sono altri livelli di severità, il disturbo o c’è o non c’è. Inoltre, il DSM non prende in considerazione i diversi domini di funzionamento, altra caratteristica fondamentale di una diagnosi dimensionale. Inoltre, il DSM si evolve con la società (esempio dell’omosessualità), ma non tiene conto dei fattori socioculturali.
Informatori: persone in grado di fornire le informazioni necessarie a elaborare la diagnosi. Sulla base degli informatori abbiamo diversi tipi di strumenti: o self-report : questionari compilati dal paziente stesso, che si limitano a valutare la presenza/assenza o l’intensità di comportamenti, pensieri, emozioni, tratti o disturbi di personalità. I vantaggi riguardano la semplicità di somministrazione che è esente da distorsioni dovute anche all’interpretazione dei dati. Questa tecnica, tuttavia, non consente di ottenere informazioni riguardo dimensioni e processi impliciti, limitazione molto importante per i pazienti con disturbi di personalità per cui i processi impliciti sono criteri diagnostici. Questo strumento è utile quando bisogna descrivere dei comportamenti o processi mentali che non richiedono una particolare competenza per essere valutati; o clinician-report: il clinico è la fonte delle informazioni, e ciò è un vantaggio perché lui è un osservatore esperto il cui giudizio è fonte di una approfondita formazione. Il clinico non è soggetto agli stessi bias del paziente, ma è soggetto ad altri tipi di bias che possono comunque influenzare le osservazioni. Questo strumento è particolarmente utile nei casi in cui i self-report non possano darci le informazioni che ricerchiamo, e per effettuare una valutazione strutturale della personalità basata su indicatori di funzionamento impliciti. Tuttavia, se il clinico conosce molto bene il paziente, i clinician-report hanno gli stessi vantaggi del self-report; o informant-report: strumenti che ricercano informatori esterni come fonte di dati sul paziente. la corrispondenza tra valutazioni di informatori esterni e autovalutazioni del paziente è generalmente modesta, ma dipende spesso dal tipo di patologia: i self-report sono più predittivi di patologie internalizzanti e gli informant-report di patologie esternalizzanti. Un’ulteriore fonte di informazione riguarda i dati oggettivi di tipo neuroscientifico. Format : strumenti di raccolta di informazioni→ esistono i questionari, i test, le checklist, i diversi tipi di colloquio, i quali possono essere collocati lungo un continuum di sistematicità e formalizzazione, dal colloquio libero, all’intervista semistrutturata, all’intervista strutturata. FUNZIONI/CONTENUTI Indipendentemente dalla scelta di un modello descrittivo o strutturale, la diagnosi può spostare il focus su:
Diagnosi politetica: implica che, per diagnosticare un certo disturbo, deve essere soddisfatto un numero X dei criteri N stabiliti. Il disturbo è inteso come un’entità rappresentata da un insieme di caratteristiche specifiche, ma suscettibile di più di una rappresentazione clinica. Limite : rischia di attribuire una stessa etichetta diagnostica a presentazioni cliniche molto eterogenee. Diagnosi prototipica: il grado di somiglianza o sovrapposizione tra la descrizione del prototipo di un disturbo e la presentazione clinica del paziente determinano la misura in cui quel paziente presenta o meno il disturbo. Secondo questo tipo di diagnosi, la manifestazione completa di un disturbo sarebbe rara, e i disturbi contemplati dalle nosografie sarebbero solo dei “tipi ideali”. Limite : implica una maggiore dose di soggettività nella valutazione. Esempi: L’approccio DSM alla diagnosi si pone a metà tra politetico e monotetico : ogni disturbo è descritto da un insieme politetico di criteri, che presenta però uguale peso diagnostico (caratteristica dell’approccio monotetico), e la presenza o meno di un disturbo è data dal superamento di un certo numero/soglia di criteri. La diagnosi prototipica è ripresa dal PDM , la cui diagnostica è di tipo prototipico, ma sia dimensionale che categoriale. Un esempio di diagnosi prototipica-politetica è rappresentato dalla SWAP , che ha un approccio matching- prototype, in cui l’insieme di caratteristiche che delineano gli stili di personalità è utilizzato per descrivere uno stile globale di personalità, e il clinico deve valutare quando il paziente assomiglia al prototipo diagnostico preso nel suo insieme. I dati di ricerca depongono a favore di un approccio politetico-prototipico. CONCEZIONE ESSENZIALISTICA/CONDIZIONALE DEI TRATTI DI PERSONALITA’ Il DSM non considera la personalità fino alla dimensione dei disturbi della personalità, in cui essa diventa l’oggetto della patologia. Ciò non è così in tutte le prospettive diagnostiche. La personalità la abbiamo tutti ed essa non si attiva solo quando siamo in una condizione di patologia della stessa. Esistono due modi di intendere i tratti , ovvero gli elementi costitutivi dei diversi stili di personalità: o Concezione essenzialistica: le diverse personalità possono essere descritte per mezzo di caratteristiche stabili e acontestuali; o Concezione condizionale: i tratti sono considerati come tendenze a reagire in modo specifico a stimoli vissuti in modo soggettivo come “condizioni attivanti” (SWAP). Ci sono delle prospettive diagnostiche per cui la personalità è rilevante tanto quanto tutto il resto dell’individuo (esempio: PDM). COLLABORATIVE EFFORT E FORMULAZIONE DEL CASO L’obiettivo della diagnosi non è patteggiare per un tipo o l’altro di diagnosi, ma è quello di ricostruire la dinamica di funzionamento psichico. La nostra sfida è l’interpretazione della complessità, il mettere insieme le funzioni, i processi, i contenuti, le dimensioni patologiche, le dimensioni di severità, la personalità all’interno di una lettura dinamica, che legge i meccanismi di movimento della persona. Collaborative effort: gli approcci diagnostici devono collaborare tutti insieme per studiare la persona. Un approccio diagnostico non può prescindere da tutti gli altri. L’approccio nosografico e quello dimensionale non sono né in opposizione né mutualmente escludenti, ma devono collaborare. Inoltre, abbiamo bisogno di introdurre la soggettività, la dimensione interpretativa: ogni processo diagnostico si deve confrontare con
L’ Assessment è la procedura di valutazione del paziente. Esso è un processo complicato che non dura mai meno di 5 incontri, all’interno dei quali cerchiamo di cogliere tutti i dati che ci servono per la formulazione del caso. Ciò significa far convergere diversi tipi di dati:
È lo strumento in cui risiede la dimensione della soggettività , ma è imprescindibile perché durante i colloqui e la somministrazione dei test non si può fare sintesi e ipotesi riguardo ai dati emersi se non si applica il ragionamento clinico. È solo questo ragionamento che mi permette di attribuire ai dati un significato riguardo il funzionamento dinamico dell’individuo. Il ragionamento clinico si organizza intorno a una domanda, cioè la finalità della consultazione (come anche la formulazione del caso). L’assessment si declina in base all’ambito applicativo in cui si sta lavorando, che ha dei principi specifici: in ambito clinico le domande sono più ampie, in ambito scolastico la domanda riguarda problematiche specifiche, in ambito giuridico-forense ci sono tantissime differenze perché la domanda la fa il giudice. L’assessment varia in modo molto sensibile in ambito multiculturale ( multicultural assesment ). Quindi, sulla base dell’ambito applicativo, l’assessment risponde a domande diverse, sceglie diversi strumenti e diverse modalità di conduzione del colloquio. IL MULTIMETHOD ASSESSMENT Un assessment, per essere valido, deve essere multi-strumentale ; cioè, dobbiamo applicare più strumenti per cogliere informazioni diverse ma complementari. Non esistono strumenti che utilizzati da soli possano consentire di formulare considerazioni diagnostiche efficaci e corrette. Il processo diagnostico ricorre quindi a diversi strumenti: o il colloquio clinico; o la raccolta dei dati bio-psico-sociali; o i test cognitivi; o gli inventari di personalità - Minnesota Multiphasic Personality Inventory, MMPI; o i test proiettivi - il test Rorschach. L’utilizzo di più strumenti diversi mi permette di raccogliere informazioni che non si sovrappongono perché i canali informativi sono completamente diversi, quindi le informazioni saranno complementari : ognuna illumina un’area di funzionamento differente. Inoltre, l’utilizzo di strumenti diversi ci permette di sfruttare al massimo gli incontri con il paziente. La batteria di base dovrebbe cogliere aree sia generali che specifiche , dovrebbe essere composta da un numero limitato di strumenti standardizzati pertinenti allo specifico tipo di disturbo/problema presentati dal soggetto, riflettendo aspetti sia nomotetici che idiografici nella valutazione. La fase di testing La fase di testing deve essere costituita dalla somministrazione di almeno tre famiglie di test. Il test è un atto tecnico in una cornice clinica, e l’interpretazione dei dati non può prescindere da quello che il clinico osserva clinicamente rispetto a come il paziente gestisce la proposta testale. Quindi: l’applicazione dei test e la loro interpretazione è strettamente collegata al contesto relazionale ed emotivo che si è creato tra psicologo e paziente dove il clima dovrebbe essere collaborativo e di disponibilità. Quando si passa dal colloquio al testing avviene un cambiamento: il terapeuta deve cambiare modo di interagire: non è più “tu per tu” come avviene nel colloquio, si introduce il test nella relazione; quindi, si deve curare l’accompagnamento del paziente alla proposta testale. Bisogna stare particolarmente attenti a non immettere componenti non verbali, perché queste potrebbero influenzare in maniera drammatica il test (e la consultazione). La fase di testing va gestita sia a livello tecnico che a livello emotivo e relazionale. Dobbiamo comprendere e accogliere il dolore del paziente senza contro-agire in maniera più o meno
Durante il colloquio, il paziente può nasconderci dei contenuti, ma ciò su cui non può mentire è il suo funzionamento, come pensa, come organizza il suo pensiero: qualunque racconto ci fornisce delle informazioni sul paziente, anche quando lui tende a non dire qualcosa. Non si può mentire sulla propria realtà psichica. Siamo interessati al contenuto della narrazione, ma siamo ancora più interessati a come il paziente declina quei contenuti, perché ciò mi illustrerà diverse dimensioni funzionali del paziente. Conoscere il paziente attraverso il colloquio clinico vuol dire individuare come il paziente narra le proprie esperienze e attraverso il suo linguaggio entrare in contatto con lui. Dobbiamo capire la poesia del paziente, vedere in vivo il suo modo di entrare in contatto con sé stesso e i suoi aspetti critici e cercare di narrarlo. La narrazione al clinico non è un’esperienza semplice perché il clinico è un estraneo e vengono trattati temi intimi, che riguardano la sfera della fragilità del paziente, che spesso ne parla per la prima volta dal suo punto di vista. Dobbiamo tenere presente che il colloquio è sempre preceduto da un colloquio telefonico , e si deve prestare attenzione anche a questo primo contatto. Nel momento in cui si telefona e si richiede un appuntamento, è un tema importante chi risponde al paziente. Può rispondere un segretario, il clinico stesso, l’accettazione in un servizio pubblico; l’importante è che chiunque risponda sia adeguatamente formato. Di solito, quindi, il paziente, in un contesto privato, contatta il terapeuta telefonicamente e chiede un appuntamento, e le prime informazioni vengono gestite al telefono (orario, aiuto su come arrivare nel luogo d’incontro). A volte già dalla telefonata si spezza qualcosa nella relazione, perché il paziente, già dalla voce, dalle domande, dalle risposte date dal terapeuta si fa un’immagine mentale di lui arrivando a delle conclusioni. A questo punto il paziente è davanti al terapeuta e viene fatto accomodare. L'esperienza clinica ci dice che il miglior modo per iniziare un colloquio clinico è chiedere “Come mai siamo qui oggi?”. NON è “Come stai?”, che sarebbe solo una domanda di cortesia e retorica rispetto a cui non ci aspettiamo una risposta clinica, perché il paziente risponderà “bene” a prescindere, e ci si sposta su un livello della relazione che sarebbe finto. Per questo dobbiamo utilizzare altre strade per arrivare a capire come sta realmente il paziente, cioè si deve fare una domanda che dia la possibilità di formare un clima di ascolto relativo alla problematica. Il paziente arriva perché c’è un problema e sarebbe sbagliato accoglierlo chiedendogli di parlare sulla sua vita, perché si sposta l’attenzione su quello che ha in mente il clinico, piuttosto che su quello che preoccupa realmente il paziente. Si dovrebbe garantire al paziente la possibilità di incontrare il clinico sul territorio della problematica: “come mai ci incontriamo?”, “qual è il problema?”. Ovviamente ci saranno alcuni pazienti che si apriranno subito, altri invece ci metteranno più tempo. Con la domanda “Come mai siamo qui oggi?” lasciamo libero il paziente di iniziare rispetto al punto in cui si sente più a suo agio. Invece, le domande sulla storia di vita verranno fatte in un secondo momento. Quali sono le variabili da cogliere durante il primo colloquio? Il primo obiettivo del colloquio clinico è sviluppare una narrazione rispetto alla dimensione critica del malessere, non solo svilupparla in termini informativi, ma anche capire la gravità. Il livello di gravità ci orienta dal punto di vista della consultazione. Potremmo pensare di non procedere con la consultazione se troviamo un quadro clinico troppo critico (es. paziente ha bisogno di una farmacoterapia), e quindi dovremmo rinviare il paziente ad una struttura in grado di aiutarlo.
Dal lato clinico si attiva una competenza tecnica : bisogna avere una metodologia che governa il colloquio con il paziente. È necessaria l’attivazione dell’ alleanza diagnostica , che è il territorio in cui il paziente si sente libero di depositare i contenuti. L’altra area su cui dobbiamo soffermarci sono le attivazioni emotive che ci elicita quel paziente: si dovrà riflettere quali saranno stati i passaggi nel colloquio più armonici e quelli più ostici e capire come mai. IL LINGUAGGIO Essendo il colloquio un’attività narrativa, dovremmo fare attenzione sia al linguaggio in entrata che al linguaggio in uscita. L’unico strumento del clinico è la parola: curiamo le persone con le parole che scegliamo. Quindi, il linguaggio, la scelta delle parole, è forse la cosa più importante da saper fare nel nostro lavoro. Il che significa che il linguaggio è uno strumento attraverso cui noi conosciamo l’altro. La parola non è solo un atto linguistico, ma è un atto implicito: quando parliamo, decliniamo delle intenzioni, decliniamo la parte implicita della narrazione, che è molto più estesa della scelta lessicale della singola parola. Lo scambio linguistico è: declinare l’atto linguistico all’interno di uno scambio relazionale in cui prende forma e significato. Quel movimento in cui avviene questo scambio è connotato anche da dati non verbali, che contestualizzano il lato esplicito. Le parole dette con certe pause, velocità o rallentamento dell’eloquio, con una certa postura, mimica espressiva, possono modificare in una maniera molto importante il messaggio che viene lanciato. La nostra capacità tecnica all’interno dei colloqui ha a che fare con la possibilità di rendere esplicito quello che il paziente veicola a livello implicito. A volte un paziente può raccontare un vissuto in senso ironico, e ciò che può creare delle ambiguità rispetto a quello che vuole trasmetterci; allora, noi abbiamo bisogno di chiarificare quello che il paziente dice, cioè, rendere esplicito l’implicito che viene sotteso dal dialogo con il paziente. Ciò si fa riprendendo le parole del paziente e chiedendo una chiarificazione; si deve far emergere quella dimensione intenzionale in maniera più elaborata per poterla comprendere meglio. Ovviamente ciò cambia in base al modo di porsi del paziente: alcuni sono molto diretti nell’esplicitare quello che hanno in mente, mentre altri sono molto “opachi”. Dobbiamo porci sempre nella prospettiva del dubbio: noi non possiamo sapere che pensano gli altri se questi non ce lo dicono. Dobbiamo entrare in risonanza con la modalità espressiva del paziente e cercare di adattarci ad esse per entrare nei contenuti, nei pensieri e cercare di fare questo lavoro di esplicitazione. La possibilità di curare le persone attraverso le parole passa attraverso la consapevolezza che il modo in cui io racconto la mia esperienza è un agito trasformativo: come io racconto la mia esperienza modifica il mio contatto con l’esperienza stessa. Nei processi terapeutici vediamo il pz raccontare la stessa esperienza in modo diverso in base al livello di consapevolezza dell’esperienza stessa (modificazione della narrazione). Dunque, la possibilità di raccontare esperienze, è un’azione che ha un impatto sul sé , sulla rappresentazione dell’esperienza. Dobbiamo essere consapevoli del fatto che si influenzano le altre persone attraverso l’uso delle parole, quindi, possiamo, a livello professionale, usare le parole per sviluppare un’elaborazione di un’esperienza critica e quindi anche ripararla. Dobbiamo anche essere consapevoli del potere che abbiamo e del fatto, soprattutto agli inizi, che è davvero critico scegliere la parola giusta da declinare per il paziente.
Cosa sono i test in psicologia? Sono strumenti standardizzati, validi e attendibili. Si usano per valutare quantitativamente e qualitativamente condizioni momentanee o durevoli di funzionamento psichico (normale o patologico), o singole funzioni, per rilevare stati e tratti predittivi anche di comportamenti e sintomi futuri. L’obiettivo dei test è di comprendere il paziente e il suo mondo di significati e spiegare come è nato e come si mantiene il problema che presenta. Il testing è una fase del multi-method assessment che permette di mettere insieme più strumenti osservativi per ottenere informazioni diverse, con il fine di compiere una formulazione del caso che sia sufficientemente completa. Abbiamo bisogno di più fonti perché ogni test risponde ad una specifica domanda di indagine; nessun test, da solo, può dare informazioni riguardo la totalità della persona e del suo funzionamento; è necessario affiancare più dati per sapere qualcosa del paziente. Non è utile solo il dato oggettivo offerto dal test, ma anche tutto il campo osservativo che si sviluppa intorno al test. Durante un assessment il dato è fondamentale, ma spesso tutto ciò che avviene intorno è ancora più significativo del solo dato. Quando, ad esempio, anche quando non si riesce a svolgere un test, si raccolgono lo stesso dei dati, a volte ancora più esplicativi rispetto ai “soli” dati oggettivi che escono dai test. Per questo si devono considerare tutti i dati dei diversi test : quindi sia i punti di forza , che di debolezza. Innanzitutto, il clinico può osservare una mutazione della posizione del paziente già tra la proposta dialogica (il colloquio clinico), e la proposta di svolgere un compito pratico (testing). Il paziente potrebbe essere meno a proprio agio nel colloquio rispetto al test (e viceversa). Quando il clinico avvia alla fase di testing, non è più a “tu per tu” con il paziente come nel colloquio clinico, ma interviene un terzo : c’è la richiesta di performance, di maneggiamento di materiale. L’interferenza di un terzo nella relazione porta a un cambiamento nel campo osservativo clinico che si costruisce intorno, e quindi cambierà anche la risposta del paziente, che si riposizionerà in qualche modo. Potrebbe non esserci nessuna modifica, ma anche questo dato è importante. Nella fase di testing è interessante vedere in base alla proposta testale come reagisce il paziente. La prima cosa che osserva il clinico è il tipo di investimento del paziente nei confronti della proposta testale. Alcuni pazienti rimangono indifferenti e non investono emotivamente nella richiesta, altri invece investono, altri ancora mutano sulla base del tipo di proposta testale. Quello che crea un cambiamento nella posizione del paziente nei confronti del test è lo stimolo che si predispone, che cambia in base al tipo di test e alla loro strutturazione. I test di livello e i self-report sono ad alta strutturazione, i test narrativi sono una via di mezzo e il test di Rorschach è la stimolazione più ambigua che si possa proporre. Ogni test viene presentato in maniera tale da lasciare il paziente libero di esprimersi, ma lui osserva il tipo di materiale che gli si propone, il tipo di performance richiesta, e la organizza in una risposta sulla base dello stimolo proposto. Per esempio, il paziente capisce se il test ha a che fare con il funzionamento cognitivo, e può sentire che vi sia una risposta giusta e una risposta sbagliata a ciò che il clinico gli propone. Se invece si presentano degli stimoli ambigui destrutturati con una consegna molto aperta, la risposta del paziente sarà diversa. Un paziente altamente controllante potrebbe sentirsi spiazzato o in difficoltà difronte ad un Rorschach, e più a suo agio difronte ad un test di livello su cui sente di avere un controllo, e di conseguenza si ingaggia.
Al contrario , un paziente di fronte a una WAIS potrebbe sentirsi in difficoltà perché ha una bassa autostima, ha avuto un percorso scolastico travagliato o si sente insicuro; mentre davanti a uno stimolo ambiguo sente di potersi esprimere liberamente. Non tutti reagiscono allo stesso modo davanti a uno stimolo, e anche la mancanza di variazione nelle risposte ai test è un dato molto importante. Tutte queste informazioni devono essere osservate tanto quanto i dati oggettivi offerti dal test, perché contestualizzano i dati all’interno di una lettura molto più ampia che riguarda il come il paziente approcci al test. Con le diverse performance dello stesso paziente ai diversi test, il clinico attiverà delle reazioni emotive specifiche. Ci saranno delle prestazioni che coinvolgeranno di più il clinico (si sentirà più in sintonia con il paziente), e altri che gli daranno un senso di tristezza o rabbia. Anche la risposta emotiva del clinico deve essere registrata per capire meglio che effetto relazionale genera la performance del paziente al test. Infatti, il tipo di reazione che ha il clinico nei confronti del paziente (es. respingerlo) è la stessa che avranno anche le persone intorno a lui nei suoi momenti di crisi. Il clinico deve chiedersi il perché di questa reazione, e il dato deve essere inserito nella formulazione del caso. Ad esempio: per un’insegnante è importante sapere che il paziente ha o no problematiche linguistiche per poter adottare delle misure compensative, ma avrà anche bisogno di indicazioni su come gestire la relazione con il paziente. Tutto quello che succede nella fase di testing, il clinico deve leggerlo come una sorta di mini-esperimento in vivo di quella che è la quotidianità del paziente (es. come prende le decisioni, le relazioni interpersonali). Il valore dell’assessment segue un certo rigore, una certa metodologia, utilizza strumenti validi e attendibili perché quello che il clinico osserva deve poterlo generalizzare al funzionamento tipico del paziente nella sua quotidianità. L’aspettativa del clinico, usando le diverse stimolazioni testali, è quella di permettere al paziente di muovere le sue diverse modalità sia di coinvolgimento che di gestione dello strumento.