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Sulla convergenza apicale di giurisprudenza riguardante il principio dell'uguale libertà di avviare trattative in base all'articolo 8, terzo comma, della costituzione italiana, nel contesto dello stato, delle chiese e del pluralismo confessionale. La natura del principio di uguale libertà e il suo potenziale ampliamento nel principio di uguale trattamento dei rapporti tra lo stato e le confessioni religiose diverse dalla cattolica. Viene anche discusso sulla relazione tra la libertà religiosa garantita dalla costituzione e l'intesa tra lo stato e le confessioni.
Tipologia: Notas de estudo
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Rivista telematica ( www.statoechiese.it ), n. 26/ 18 luglio 2016 ISSN 1971- 8543
Angelo Licastro (ordinario di Diritto ecclesiastico nell’Università degli Studi di Messina, Dipartimento di Giurisprudenza)
**La Corte costituzionale torna protagonista dei processi di transizione della politica ecclesiastica italiana? ***
SOMMARIO: 1. Due sentenze che rompono un silenzio durato un decennio – 2. La portata del principio affermato dalla sent. n. 52 del 2016: dal riconoscimento del “diritto a negoziare” l’intesa alla (ribadita) insindacabilità dell’atto di avvio delle trattative – 3. Le ragioni poste a base della decisione della Corte – 4. La libertà di culto di fronte alla rinnovata attenzione per le esigenze di “sicurezza” della collettività nella sent. 63 del 2016 – 5. “Eguale libertà” vs “libertà diversamente graduata” – 6. I riflessi della pronunzia n. 52 del 2016 sul problema della qualificazione del gruppo come “confessione religiosa” – 7. Le oscillazioni della Corte in tema di “laicità” e le criticità emergenti del diritto ecclesiastico italiano.
1 – Due sentenze che rompono un silenzio durato un decennio
Una rapida scorsa dell’elenco delle pronunzie emanate, negli ultimi anni, dalla Corte costituzionale su materie riguardanti i rapporti tra diritto e religione – e pertanto classificate tra quelle di (più o meno diretto) interesse ecclesiasticistico^1 – può indurre a ritenere che sia risultato particolarmente incisivo (o, almeno, non meno efficace ed esteso rispetto al passato) l’apporto del giudice delle leggi «alla definizione della specifica e peculiare “identità costituzionale” del diritto ecclesiastico italiano»^2.
(^1) Negli indici dei Quaderni di diritto e politica ecclesiastica , relativi al periodo compreso tra il 2006 e il 2015, si contano ben 45 pronunzie, distribuite in maniera abbastanza uniforme nelle varie annate. (^2) L’espressione virgolettata è di S. DOMIANELLO , L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia ecclesiastica: vantaggi e rischi del passaggio dalla ‘copertura’ delle fonti a quella dei valori , in S. DOMIANELLO , Giurisprudenza costituzionale e fattore religioso. Le pronunzie della Corte costituzionale in materia ecclesiastica (1987-1998) , Giuffrè, Milano, 1999, p. 59. L’Autrice aveva poco prima affermato che la “giurisprudenza costituzionale italiana ha svolto e continua a svolgere un ruolo centrale nel processo di definizione dei contenuti del nostro diritto ecclesiastico, sia a motivo dell’indeterminatezza e della forte carica assiologica di gran parte dei princìpi che è dato riscontrare nella specifica materia, sia a
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Peraltro, anche senza addentrarsi in più puntuali analisi quantitative che tengano conto, ad esempio, del tipo di decisione di volta in volta adottata, una ricognizione appena meno superficiale porta a stimare ben al di sotto di quanto sembrerebbe emergere dalla loro consistenza numerica l’effettiva rilevanza del contributo offerto, nel senso prima accennato, dalle suddette pronunzie della Corte. A parte quelle che hanno risolto questioni di carattere meramente tecnico, da cui è difficile ricavare indicazioni sistematiche o comunque di valenza più generale rispetto alla specifica questione affrontata^3 , si tratta spesso di pronunzie che, al più, testimoniano l’esistenza di nuove forme di intersezione tra diritto e religione, in settori, tuttavia, privi di specifica normazione di diritto ecclesiastico^4. Nulla che somigli (neanche lontanamente) a qualcosa capace di dare impulso, nell’ambito della disciplina, a nuovi indirizzi interpretativi o a nuove ipotesi ricostruttive, o che possa mettere in crisi, in particolari contesti, gli assetti teorici più comunemente condivisi o il collaudato agire degli operatori pratici del diritto^5. Per rinvenire un intervento della Consulta che abbia inciso in maniera profonda sul volto stesso di alcuni tradizionali settori della disciplina, bisogna risalire fino alla sentenza n. 168 del 2005, con cui venne dichiarato parzialmente illegittimo l’art. 403, primo e secondo comma, c.p.^6. La sentenza è in realtà l’ultima di un gruppo più ampio di decisioni (la
motivo delle gravi trascuratezze, quanto a tempestività e precisione, nelle quali è incorso il legislatore, proprio in questo delicato settore” ( ibidem , p. 39; enfasi nell’originale). (^3) Penso, ad esempio, a qualche pronunzia sul diverso trattamento, quanto agli aumenti economici biennali, dei docenti di religione (non stabilizzati ai sensi della legge 18 luglio 2003, n. 186), rispetto agli altri docenti con incarico a tempo determinato: Corte cost. 20 giugno 2013, n. 146, in Quad. dir. pol. eccl. , n. 3, 2013, p. 719 ss. (^4) Numerose sono, all’interno di questo gruppo, le pronunzie riguardanti temi eticamente sensibili, soprattutto in materia di bioetica (e, in particolare, di procreazione medicalmente assistita), o di matrimonio tra persone dello stesso sesso. Ravvisa nel crescente interesse degli ecclesiasticisti “per ambiti privi di sistematica normazione a riferimento religioso”, tra cui il biodiritto, “la consapevolezza dell’insufficienza dell’approccio church and state ”, tipico del diritto ecclesiastico italiano, M. VENTURA , Diritto ecclesiastico e Europa. Dal church and state al law and religion, in G.B. Varnier (a cura di), Il nuovo volto del diritto ecclesiastico italiano , Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004, p. 204. (^5) Lo stesso riferimento ai “principi supremi”, come parametro per lo scrutinio di costituzionalità delle norme concordatarie, contenuto nella sentenza 22-24 ottobre 2007, n. 348, par. 4.7 del Considerato in diritto , ribadisce incidentalmente un orientamento ben consolidato del giudice delle leggi, risalente, com’è noto, ai primi anni settanta (e su cui si tornerà, per cenni, più avanti). (^6) Corte cost., sentenza 18 - 29 aprile 2005, n. 168, in Quad. dir. pol. eccl. , n. 3, 2005, p. 1065 ss.
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2 – La portata del principio affermato dalla sent. n. 52 del 2016: dal riconoscimento del “diritto a negoziare” l’intesa alla (ribadita) insindacabilità dell’atto di avvio delle trattative
Della sentenza n. 52 non interessa, in questa sede, approfondire i profili di carattere tecnico-processuale, emergenti dalle diverse tappe dell’ iter poi sfociato nell’intervento della Corte^11. Lo stesso principio da essa affermato non va letto, a mio avviso, in stretta connessione coi termini concreti della
(^11) Nella vicenda sono intervenuti: il Tar Lazio, sez. I, sent. 31 dicembre 2008, n. 12539; il Cons. St., sez. IV, 18 novembre 2011, n. 6083, in Foro it ., 2012, III, c. 632 ss.; la Cass. civ., sez. un., sent. 28 giugno 2013, n. 16305, in Quad. dir. pol. eccl. , n. 3, 2013, p. 779 ss.; ancora il Tar Lazio, sez. I, sent. 3 luglio 2014, n. 7068, ivi , n. 3, 2014, p. 737 ss.; la Corte cost., ord. 25 febbraio 2015, n. 40, con cui venne dichiarato ammissibile il conflitto (pronunzie tutte richiamate nella motivazione della sentenza della Corte). Si deve, pure, ricordare, in relazione a una precedente istanza proveniente dalla medesima associazione, Cons. St., sez. I, parere 29 ottobre 1997, n. 3048/96, ivi , n. 3, 1998, p. 850 ss., secondo cui l’atto, con il quale si dà o si nega l’avvio al procedimento per la conclusione dell’intesa, non può essere adottato dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, ma deve essere sottoposto alla deliberazione del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 2, terzo comma, lett. l ), della legge n. 400 del 1988, in quanto ( ibidem , p. 852) “la decisione di avvio o di diniego di avvio delle trattative è, assieme ad altri atti del complesso procedimento di intesa, un atto presupposto conclusivo di un subprocedimento, la cui competenza è attribuita dalla legge al Consiglio dei Ministri; esso è atto essenziale concernente i rapporti previsti dall’art. 8 della Costituzione” (ora la Corte cost. riconosce “autonomo rilievo” al ruolo svolto dalla Presidenza del Consiglio “nel procedimento di stipulazione delle intese – e in particolare nella fase iniziale di cui qui si discute, quando cioè si tratta di individuare l’interlocutore e avviare le trattative –”, per come risulterebbe dall’art. 2, I comma, lett. e ), del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 303, norma che si limita però ad affidare alla Presidenza l’esercizio di funzioni inerenti ai “rapporti del Governo con le confessioni religiose, ai sensi degli articoli 7 e 8, ultimo comma, della Costituzione” e che non incide certamente sui profili di competenza prima delineati); nonché Cons. St., sez. I, parere 24 febbraio 1999, n. 11, in Quad. dir. pol. eccl ., n. 3, 1999, p. 731 s., secondo il quale il precedente parere del Consiglio di Stato non ha in alcun modo qualificato il procedimento in esame come “procedimento a impulso di parte rispetto al quale sussiste un obbligo dell’amministrazione di pervenire a un provvedimento di accoglimento o di diniego” ( ibidem , p. 732). Il Tar Lazio, 3 luglio 2014, n. 7068, cit., aveva, infine, precisato che l’atto di diniego del Governo non dovesse assumere la veste di decreto del Presidente della Repubblica (prevista dell’art. 1, primo comma, lett. ii , della legge n. 13 del 1991, per “tutti gli atti per i quali è intervenuta la deliberazione del Consiglio dei Ministri”), in quanto «nella fattispecie in questione, non è rinvenibile alcuna determinazione provvedimentale, atteso che il Consiglio dei Ministri ha assunto una “determinazione negativa”, deliberando di non stipulare intesa alcuna ex art. 8, comma 3, Cost.» (par. 1.2).
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vicenda oggetto della decisione^12 , che poneva alcune questioni tutte particolari, su cui non si è in alcun modo focalizzato l’intervento dei giudici (anche se, come si chiarirà più avanti, esse non sono state forse del tutto ininfluenti rispetto ai contenuti finali della decisione)^13. Mettendo la parola fine (almeno per quanto riguarda la possibilità di ricorso interno)^14 all’annosa vicenda della richiesta promossa (sin dal 1995) dall’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti, la Corte ha sostanzialmente affermato che rientra nella discrezionalità politica del Governo la scelta di avviare trattative con un gruppo in vista della stipulazione dell’intesa di cui all’art. 8, terzo comma, Cost. Non sussisterebbe, pertanto, alcuna possibilità di sindacare in sede giurisdizionale il provvedimento del Consiglio dei ministri di rigetto dell’istanza proveniente dalla confessione, che non vanterebbe alcuna pretesa giustiziabile davanti ai giudici comuni a ottenere (neppure soltanto) l’avvio delle trattative. La condotta del Governo impegnerebbe, infatti, solo la sua responsabilità politica nei confronti del Parlamento^15.
(^12) Indizi in tal senso sono offerti dalla stessa motivazione della sentenza, dove, in particolare, si precisa che l’atto di diniego “ nella misura e per la parte in cui si fondi sul presupposto che l’interlocutore non sia una confessione religiosa” non determina ulteriori conseguenze negative, lasciandosi intendere che esso possa ben fondarsi sulla non opportunità di avviare le trattative con una confessione senz’altro riconducibile alla nozione presupposta dall’art. 8, terzo comma, Cost. (mio il corsivo). Tra i commentatori sella sentenza, sottolinea giustamente questo aspetto D. PORENA , Atti politici e prerogative del Governo in materia di confessioni religiose: note a prima lettura sulla sentenza della Corte costituzionale n. 52/2016 , in federalismi.it , 7, 2016, p. 6. (^13) Va anzi aggiunto che la qualificazione come atto discrezionale insindacabile della scelta del Governo di avviare le trattative si potrebbe rivelare un ottimo espediente offerto ai competenti organi dello Stato per evitare d’impaniarsi nelle delicatissime questioni interpretative implicate dal caso concreto e che, in una prospettiva diversa da quella cui è approdata la Corte, lungi dal potere essere aggirate, avrebbero invece rivestito carattere assolutamente pregiudiziale. Su questo punto si ritornerà più avanti. (^14) I contenuti della pronunzia, come si vedrà più avanti, non sembrano aprire prospettive particolarmente incoraggianti in ordine a un’eventuale iniziativa del gruppo volta a sollevare, nei confronti del Governo, un conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, la cui praticabilità quale forma di garanzia per le confessioni non ammesse alle trattative, per quanto sostenuta da una parte della dottrina ( A. GUAZZAROTTI , Il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato quale strumento di garanzia per le confessioni religiose non ammesse alle intese , in Giur. cost. , 1996, p. 3920 ss.), appariva in vero già prima e di per sé non poco problematica. (^15) La pronunzia è stata già fatta oggetto di un significativo numero di commenti, in particolare da parte della dottrina costituzionalistica. Cfr.: R. DICKMANN , La delibera del Consiglio dei ministri di avviare o meno le trattative finalizzate ad una intesa di cui all’art. 8, terzo comma, Cost. è un atto politico insindacabile in sede giurisdizionale , in forumcostituzionale.it , 21 marzo 2016, p. 1 ss.; A. FERRARA , Corte cost. n. 52 del 2016, ovvero dello svuotamento delle
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discendere direttamente dalle norme costituzionali in materia^17 , secondo, del resto, un esito interpretativo corrispondente a una ben nota e piuttosto diffusa convinzione dottrinale^18. Tuttavia, in giurisprudenza, si era di recente registrata una significativa “convergenza”^19 di vedute tra il Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione, che sembrava prefigurare l’affermarsi di rilevanti novità in ordine alla concreta azionabilità dell’interesse ad agire della confessione in vista della “piena ed effettiva tutela conseguibile con il bene oggetto del contenuto dell’Intesa”^20. Seguendo un percorso logico in gran parte coincidente, e saldamente ancorato al principio di “eguale libertà” delle confessioni^21 , di laicità e di
(^17) In tal senso, esattamente, L. D’ANDREA , Eguale libertà ed interesse alle intese delle confessioni religiose: brevi note a margine della sent. Cost. n. 346/2002 , in Quad. dir. pol. eccl. , n. 3, 2003, p. 678. (^18) Cfr., per tutti, in termini puntuali, C. CARDIA , Manuale di diritto ecclesiastico , il Mulino, Bologna, 1996, p. 226. Si veda, pure, F. FINOCCHIARO , Diritto ecclesiastico , 12ª ed., a cura di A. Bettetini, G. Lo Castro, Zanichelli, Bologna, 2015, p. 137, secondo il quale le intese, in quanto dirette all’emanazione di una legge, “non toccano la responsabilità dell’amministrazione, bensì la responsabilità politica del governo”. Cfr., altresì, N. COLAIANNI , Tutela della personalità e diritti della coscienza , Cacucci Editore, Bari, 2000, p. 229 s., il quale afferma che “l’intesa non integra un rapporto obbligatorio, è una facoltà, tanto per le confessioni quanto per lo Stato”, sicché lo “stesso avviamento delle trattative […] rientra nel potere discrezionale del governo, il cui mancato esercizio è sanzionabile solo politicamente dal Parlamento e non azionabile davanti a organi di giustizia amministrativa” ( ivi , nelle note 24 e 25, ulteriori riferimenti). Lo stesso Autore aveva, invece, sottolineato la “necessità di generalizzare l’obbligo del Governo (o quanto meno di ancorarne a precisi parametri l’esercizio del potere) di iniziare, salvo il raggiungimento dell’accordo, il procedimento d’intesa con tutte le confessioni che ne facciano richiesta” in N. COLAIANNI , Confessioni religiose e intese. Contributo allo studio dell’art. 8 della Costituzione , Bari, Cacucci, 1990, p. 195; nel più recente lavoro dal titolo Ateismo de combat e intesa con lo Stato , in Rivista AIC , n. 4, 2014, p. 9, egli definisce l’intesa come “atto conclusivamente politico”, sottolineando, ivi , p. 8, che è “con riguardo […] alla fase conclusiva […] che si prospetta la tesi della facoltatività, di contro alla doverosità della fase di avvio, dell’intesa”). Ulteriori riferimenti in L. D’ANDREA , Eguale libertà , cit., p. 678 ss. (^19) Richiamava, non a caso, alcune “convergenze apicali di giurisprudenza” il titolo dello scritto di J. PASQUALI CERIOLI , Accesso alle intese e pluralismo religioso: convergenze apicali di giurisprudenza sulla “uguale libertà” di avviare trattative ex art. 8 Cost., terzo comma , in Stato, chiese e pluralismo confessionale , cit., n. 26, 2013, p. 1. (^20) Così S. BERLINGÒ , L’ affaire dell’U.A.A.R.: da mera querelle politica ad oggetto di tutela giudiziaria , in Stato, chiese e pluralismo confessionale , cit., n. 4, 2014, p. 11. (^21) … di “tutte” le confessioni religiose , secondo la non equivoca formulazione della disposizione costituzionale. È probabilmente dovuta a una svista, senza che si possa quindi da essa desumere la volontà del Consiglio di esplicitare l’adesione a indirizzi dottrinali da tempo superati, l’affermazione, contenuta in motivazione, secondo cui l’art. 8, primo
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non discriminazione^22 , i giudici avevano escluso la possibilità di qualificare come “atto politico” (“atto libero nei fini”, salvo quelli previsti dalla Costituzione), in quanto tale insindacabile, il provvedimento governativo che rifiutasse l’inizio delle trattative. Se il provvedimento presenta piuttosto “i tratti tipici della discrezionalità valutativa come ponderazione di interessi”^23 , è fuori luogo invocare – di contro a quella che era stata la linea seguita dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, accolta dal Tar – l’art. 7, primo comma, del nuovo Codice del processo amministrativo (d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104), il quale, riproducendo una assai discussa disposizione contenuta nell’art. 31 del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054 ( Approvazione del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato ), sancisce, appunto, la non impugnabilità degli “atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico”. L’ampia discrezionalità che caratterizza gli atti di questo tipo è sempre parsa difficilmente conciliabile coi principi sanciti dagli artt. 24 e 113 Cost., tanto che la dottrina li ha ritenuti sottratti al sindacato giurisdizionale solo quando e se inidonei a incidere su diritti o interessi legittimi. Si giustifica, quindi, già da un punto di vista sistematico generale , ogni sforzo volto a individuare limiti assai rigorosi entro i quali delimitarne concettualmente i requisiti essenziali^24 , secondo un approccio che la stessa Corte costituzionale ha mostrato di condividere in diverse occasioni. Anzi, può considerarsi in tal senso paradigmatica la sentenza n. 81 del 2012, richiamata dalla Cassazione^25 , nella quale, a proposito del provvedimento di nomina degli assessori da parte del Presidente della Giunta regionale, si è affermato che
“gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; […]. Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli
comma, Cost., sancisce il “principio dell’eguale libertà delle confessioni religiose diverse dalla cattolica ” (par. 5, mio il corsivo). (^22) Un particolare rimarco dell’esigenza di consentire, in materia religiosa, “l’accesso alla tutela giurisdizionale in funzione antidiscriminatoria”, “per il suo essere tradizionale terreno di azioni antiumanitarie”, è presente in Cass. 28 giugno 2013, n. 16305, cit., par. 4.3.1. Ma già Cons. St., 18 novembre 2011, n. 6083, cit., par. 7, aveva sottolineato che l’ampia discrezionalità che connota lo strumento delle intese fonda un sistema che si presta a “evidenti discriminazioni”. (^23) Cons. St., 18 novembre 2011, n. 6083, cit., par. 9. (^24) Ibidem , par. 3; Cass. 28 giugno 2013, n. 16305, cit., par. 4. (^25) Cass. 28 giugno 2013, n. 16305, cit., par. 4.1.
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sia da ricondurre alla particolare apertura in senso pluralistico dell’ordinamento repubblicano ed esprima la accentuata disponibilità del medesimo a relativizzare o a rendere più flessibile ogni pretesa assoluta ed esclusiva di esercizio della sovranità^31. Mentre però ciò ha immediatamente modo di tradursi in un limite negativo per il legislatore, che, secondo quanto è dato desumere dalla stessa formulazione della disposizione costituzionale, non può disciplinare unilateralmente i rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose (pena l’illegittimità costituzionale della legge), risulta invece più difficile ammettere l’esistenza (e soprattutto l’azionabilità in sede giudiziale) di un vincolo positivo , che impegni i competenti organi dello Stato a obbligatoriamente attivarsi (sia pure a seguito della richiesta della confessione) per dare attuazione al particolare disposto costituzionale. Del resto, secondo il Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione^32 , di un vincolo positivo di questo tipo può parlarsi solo con riguardo alla fase iniziale di ammissione del gruppo alla stipula dell’intesa , ferma restando l’insindacabilità delle scelte del Governo relative a tutte le fasi successive del complesso iter (da quella relativa alla prosecuzione dei negoziati, alla conclusione dell’accordo, alla presentazione in Parlamento del relativo disegno di legge, e salvo in ogni caso il potere sovrano del Parlamento nella discussione e approvazione del medesimo). Insomma, il nodo cruciale della questione sta proprio nel verificare se, pur con tutte le suddette restrizioni, il principio dell’eguale libertà di tutte le confessioni religiose (di cui all’art. 8, primo comma, Cost.) possa determinare una significativa compressione del potere discrezionale dell’amministrazione, tanto da imporre a essa (l’obbligo giudizialmente azionabile) di ammettere il gruppo richiedente l’intesa alle trattative (dopo che abbia avuto esito positivo l’accertamento preliminare, parimenti non insindacabile da parte del giudice, volto a verificarne la riconducibilità al genus delle “confessioni religiose”). E la tesi dei giudici (Consiglio di Stato e Corte di cassazione), senz’altro favorevole ad ammettere tale compressione, considera giustiziabile la “speculare” pretesa della confessione appunto quale “corollario immediato” di quel principio^33 , ossia quale situazione giuridica il cui
(^31) Cfr. S. BERLINGÒ , voce Fonti del diritto ecclesiastico , in Digesto disc. pubbl ., VI, Utet, Torino, 1991, p. 455. (^32) In vero, quest’ultima preciserà che essa “non deve e non vuole pronunciarsi sulla esistenza di un diritto alla chiusura della trattativa o all’esercizio dell’azione legislativa: esula dall’ambito decisionale che è qui configurato“ (par. 8). In ogni caso, il principio di diritto affermato dalla Corte è limitato alla fase dell’avvio delle trattative. (^33) Cons. St., 18 novembre 2011, n. 6083, cit., par. 8.
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fondamento “ riposa direttamente sui precetti costituzionali che fondano i diritti di libertà religiosa ”^34 e che configurano l’intesa stessa quale strumento previsto “ in funzione dell’attuazione della eguale libertà ” delle confessioni religiose^35.
3 - Le ragioni poste a base della decisione della Corte
Neppure siffatto orientamento – disatteso dalla Corte costituzionale – poteva dirsi privo di puntuali riscontri dottrinali, in quanto le sue coordinate essenziali erano già rintracciabili in alcuni studi. Così, ricordato che l’art. 8, primo comma, Cost. pone il principio, “questo sì, veramente supremo”, di eguale libertà di tutte le confessioni religiose, è stato osservato che mettendo in relazione questa disposizione con quella di cui all’art. 8, terzo comma, Cost., ne deriverebbe che “ il principio di uguale libertà si potenzia nel principio di uguale trattamento dei rapporti tra ordinamento statale e ordinamenti confessionali”^36. Pertanto, i rapporti tra lo Stato e le confessioni diverse dalla cattolica
“sono, cioè debbono essere regolati , con intesa, se – previo un riconoscimento anche generico da parte dello Stato dell’ordinamento confessionale – l’intesa sia richiesta dalla confessione e nei limiti – s’intende – in cui sia possibile realizzarla. In altri termini, una volta che una confessione religiosa si presenti organizzata secondo uno statuto non (ritenuto) contrastante con l’ordinamento giuridico statale (ossia,
(^34) Cass. 28 giugno 2013, n. 16305, cit., par. 7. (^35) Cass. 28 giugno 2013, n. 16305, cit., par. 6. Una particolare sottolineatura della ”eguale libertà” come regola fondamentale del modello stesso del diritto ecclesiastico italiano è contenuta in P. BELLINI , Principi di diritto ecclesiastico , Cetim, Bresso, 1972, p. 159 s.; S. BERLINGÒ , voce Fonti del diritto ecclesiastico , cit., p. 459; C. CARDIA , Manuale , cit., p. 186; G. CASUSCELLI , Concordati, intese e pluralismo confessionale , Giuffrè, Milano, 1974, p. 144 ss.; G. CASUSCELLI. , Post-confessionismo e transizione. I problemi del diritto ecclesiastico nell’attuale esperienza giuridica , Giuffrè, Milano, 1984, p. 55 ss.; F. MARGIOTTA BROGLIO , Sistema di intese e rapporti con la Chiesa cattolica , in C. Mirabelli (a cura di), Le intese tra lo Stato e le confessioni religiose. Problemi e prospettive , Giuffrè, Milano, 1978, p. 135. (^36) Così F. MODUGNO , voce Principi generali dell’ordinamento , in Enc. giur ., XXVII, Treccani, Roma, 1991, p. 21 s. (enfasi nell’originale). Fra gli ecclesiasticisti, parlano dell’esistenza di un “obbligo a contrattare la materia dei rapporti” e di un “diritto ad esigere il reciproco rispetto della regola della bilateralità”, con la conseguenza che se le confessioni entrano in rapporti con lo Stato “hanno il dovere di regolamentarli in via pattizia, e il diritto di vederli così disciplinati”, G. CASUSCELLI , S. DOMIANELLO , voce Intese con le confessioni religiose diverse dalla cattolica , in Digesto disc. pubbl. , VIII, Utet, Torino, 1993, p. 532 (enfasi nell’originale).
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b ) in secondo luogo, si sottolinea l’intrinseca contraddittorietà logica dell’idea di un obbligatorio avvio delle trattative di fronte alla “non configurabilità di una pretesa alla conclusione positiva del negoziato e quindi alla stipulazione dell’intesa”, elemento, quest’ultimo, che si proietterebbe sull’intero procedimento legislativo, unitariamente inteso; c ) in terzo luogo, viene ribadita l’ampia discrezionalità politica del Governo nella scelta dei soggetti da ammettere alle trattative e di dare effettivo avvio alle medesime. In verità, gli argomenti sub a ) e sub c ) si rivelano non pienamente persuasivi a motivo, intanto, della loro genericità. È ovvio che il metodo della bilateralità presuppone il libero confronto, il dialogo e l’incontro delle volontà di due soggetti (“intendersi” con qualcuno significa proprio “accordarsi”), ma, nel caso in esame, bisognava piuttosto puntare ad accertare se il sistema delle norme costituzionali concernenti la disciplina del fenomeno religioso consentisse di individuare (o, comunque, autorizzasse a ritenere implicitamente esistente) un particolare adattamento della regola generale. A rigore, anche l’argomento sub c ) sembra tutt’altro che risolutivo: anzi, sganciato dal contesto, e dal senso complessivo della motivazione (su cui si tornerà a breve), esso potrebbe quasi apparire affetto dal vizio logico tipico delle petizioni di principio, in quanto era proprio la fondatezza di quella conclusione (la riconduzione della scelta di dare avvio alle trattative alla insindacabile discrezionalità politica del Governo) che bisognava dimostrare, anziché dare a essa autonomo rilievo fra i motivi posti a base della decisione. L’argomento ( sub b ) che fa leva sull’inesistenza di un diritto a ottenere la conclusione dell’intesa (e la sua approvazione in legge) è, invece, molto suggestivo e merita maggiore approfondimento. Nella prospettiva da cui muove la Corte, non vale peraltro soffermarsi sulla posizione dell’intesa in rapporto all’articolazione dell’intero procedimento che conduce alla disciplina dei rapporti tra lo Stato e la confessione (se, cioè, essa sia parte integrante e indissociabile dell’ iter di formazione della legge o se non rimanga piuttosto, come parrebbe doversi ammettere, un elemento esterno a esso)^41. Piuttosto, si tratta di capire
federarsi tra loro per garantire una migliore rappresentatività della base comunitaria di riferimento, sceglierebbero la nuova struttura organizzativa, in vista dei vantaggi derivanti dall’intesa, del tutto liberamente. (^41) Il che sembrerebbe confermato dal fatto che l’iniziativa legislativa interviene in un momento successivo, con quanto ne consegue, ad esempio, in ordine al principio di decadenza dei progetti di legge per fine della legislatura, i cui effetti non possono incidere
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(tenendo presente lo scenario prospettato dal Consiglio di Stato, rispetto al quale, vale la pena ricordare, la Cassazione aveva invece tenuto un atteggiamento di self-restraint ) se abbia senso rivendicare una pretesa (giustiziabile) all’avvio delle trattative qualora il Governo dovesse ritenersi autorizzato (salva la sua responsabilità politica) a interromperle anche nel momento immediatamente successivo (e pure senza addurre – ci si può spingere a immaginare – particolari e ragionevoli giustificazioni)^42. «Sposta poco, praticamente» – si potrebbe dire, come in effetti è stato autorevolmente sottolineato – «che il Governo […] offra ospitalità a Palazzo Chigi ai rappresentanti della confessione per poi tagliar subito corto e manifestare indisponibilità e vera e propria insofferenza al “dialogo”»^43. Se il Governo potesse (ripeto: salva la responsabilità politica) decidere anche del tutto arbitrariamente delle sorti del negoziato, non avrebbe in effetti molto senso imporre il formale e meramente rituale avvio delle trattative, che, al più, potrebbe assicurare alle confessioni solo una sorta di “passerella” istituzionale, senza garanzia alcuna di ulteriori, positivi, sviluppi. Ma proprio qui sta il punto: come è stato sottolineato, l’inesistenza di “un diritto azionabile alla positiva conclusione delle trattative” non può che essere intesa come impossibilità per la confessione di «vantare una pretesa giuridicamente garantita alla conformazione sostanzialmente “unilaterale”», ossia meramente potestativa , della disciplina dei rapporti con lo Stato^44. Pertanto, si potrebbe ritenere che
«neppure la chiusura della trattativa possa essere soggetta a pura discrezionalità; e che, parallelamente, i gruppi istanti godono di un interesse qualificato all’esito favorevole del negoziato. Gli ostacoli alla stipulazione dell’intesa devono quindi essere anch’essi supportati dall’esistenza di un “parametro giuridico”, per esempio in presenza di quegli impedimenti di “ordine costituzionale” occasionati allorché si
in alcun modo sull’intesa. Insiste, invece, sull’argomento legato all’autonomia dell’intesa rispetto al procedimento legislativo di approvazione, V. VITA , Della non obbligatorietà , cit_._ , p. 8 (dove si trovano anche ampi rif. dottrinali, cui rinvio). (^42) Cfr. S. LEONE , L’aspettativa , cit_._ , p. 4, secondo la quale andando “sino in fondo la Corte avrebbe potuto chiaramente dire che il rifiuto opposto dal Governo si sarebbe potuto reggere da sé, senza alcuna motivazione”. (^43) A. RUGGERI , Confessioni religiose e intese , cit., p. 3. (^44) L. D’ANDREA , Eguale libertà , cit., p. 679. Secondo l’Autore deve “ritenersi giuridicamente ( rectius : costituzionalmente) rilevante l’interesse di ogni confessione religiosa all’apertura delle trattative con il Governo (ovviamente, ove ne avanzi formale richiesta), nonché l’interesse al corretto e leale svolgimento del conseguente negoziato” ( ibidem , p. 680).
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Vero è, però, che, se l’argomento usato dalla Corte non pare sufficiente a dimostrare l’inattendibilità della tesi dell’obbligatorietà dell’avvio delle trattative, gli elementi sottesi alle considerazioni critiche fin qui illustrate non valgono parimenti da soli ad assicurare un incontestabile supporto alla sua fondatezza. Del resto, a ben vedere, il passaggio veramente cruciale, decisivo, della motivazione della sentenza è un altro, e consiste nella asserita dissociazione dell’art. 8, terzo comma, Cost. dai principi di cui ai primi due commi del medesimo articolo : l’intesa, cioè, secondo la Corte, non è uno strumento procedurale indissolubilmente legato alla realizzazione dei principi di eguaglianza e pluralismo in materia religiosa sanciti dalla Costituzione^50. La libera professione della fede religiosa (art. 19 Cost., che ne garantisce la tutela anche quando avviene “in forma associata”) e l’eguale libertà delle confessioni di organizzarsi (artt. 8, primo e secondo comma, Cost.) e di agire, per il perseguimento delle proprie finalità (artt. 8, primo comma e 19 Cost.), nell’ambito materiale di rilevanza dell’ordinamento statale, sarebbero già compiutamente assicurate dalla Costituzione , mentre l’intesa rappresenterebbe soltanto un quid pluris , funzionale “al riconoscimento di esigenze peculiari del gruppo religioso”, ritenute non ininfluenti (bisogna ipotizzare) a modificare lo status della confessione – ossia l’insieme delle garanzie che ne definiscono la complessiva condizione giuridica all’interno dell’ordinamento statale – ma non per profili afferenti al godimento di diritti e libertà essenziali e, quindi, senza ricadute sul parametro della ”eguale libertà” che la Corte ci dice ora da intendere necessariamente limitato ai contenuti di base del libero organizzarsi e agire della confessione^51. Gli snodi principali della motivazione della sentenza possono essere, quindi, così riassunti: a ) tutte le confessioni religiose sono già egualmente libere , perché sono direttamente titolari delle garanzie di base inerenti alla tutela del loro diritto fondamentale di organizzarsi e di agire per la realizzazione delle proprie finalità;
(^50) Corte cost., sentenza n. 52 del 2016, par. 5.1 del Considerato in diritto (^51) In altra occasione (sentenza n. 235 del 1997) la Corte aveva invece affermato che le differenze naturalmente riscontrabili nei contenuti delle discipline bilaterali dei rapporti dello Stato con le confessioni religiose sono “espressioni di un sistema di relazioni che tende ad assicurare l’uguale garanzia di libertà e il riconoscimento delle complessive esigenze di ciascuna di tali confessioni, nel rispetto della neutralità dello Stato in materia religiosa nei confronti di tutte” (par. 4 del Considerato in diritto ; miei naturalmente i corsivi).
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b ) l’intesa non è affatto il tramite necessario per la fruizione di queste elementari garanzie di base^52 e pertanto la confessione che ne è priva non subirà alcun pregiudizio nella tutela dei propri diritti fondamentali di libertà; c ) non si può pertanto neppure porre il problema relativo alla possibilità di invocare il principio di cui al primo comma dell’art. 8 Cost. quale limite del potere discrezionale del Governo di individuare, sin dalla fase dell’ammissione alle trattative dirette alla stipula dell’intesa, le confessioni cui possono essere concesse peculiari forme di rilevanza dei rispettivi tratti identitari specifici, distinguendole dalle altre che non potranno aspirare a una parimenti avanzata forma di tutela della loro libertà.
4 – La libertà di culto di fronte alla rinnovata attenzione per le esigenze di “sicurezza” della collettività nella sent. 63 del 2016
La Corte, con la (di poco successiva) sentenza n. 63 del 2016, ha subito avuto modo di presentare un esempio emblematico dei casi in cui la tutela di profili essenziali della libertà di religione impone sicuramente una paritaria forma di protezione di tutte le confessioni^53. In vero, il principio affermato dalla pronunzia era già un dato ampiamente acquisito, potendo farsi risalire a un noto e importante (anche se risalente al 1958) precedente della Corte. La decisione odierna interviene, però, per dirimere una questione insorta in un contesto normativo profondamente mutato rispetto ad allora, cui sono sottesi problemi e equilibri in parte diversi, che le stesse intese concretamente stipulate e tradotte in legge non possono non aver concorso a determinare. Tra quei problemi non mancano di essere ricompresi anche quelli di una eventuale, possibile, declinazione locale (ossia differenziata a livello territoriale) delle forme di tutela di interessi primari afferenti all’esperienza religiosa^54.
(^52) Questo aspetto del principio riguardante la disciplina dei rapporti tra Stato e confessioni era stato chiarito dalla Corte cost. sin dalla sentenza n. 59 del 1958, dove i giudici precisarono che la mancanza dell’intesa “non può escludere che, al di fuori e prima di quella concreta disciplina di rapporti, l’esercizio della fede religiosa possa aver luogo liberamente, secondo i dettami della Costituzione”. (^53) Per un primo commento alla sentenza, cfr. M. CROCE , L’edilizia di culto dopo la sentenza n. 63/2016: esigenze di libertà, ragionevoli limitazioni e riparto di competenze fra Stato e Regioni , in forumcostituzionale.it , 3 maggio 2016, p. 1 ss.: G. MONACO , Confessioni religiose: uguaglianza e governo del territorio (brevi osservazioni a margine della sentenza della Corte costituzionale n. 63/2016) , ivi , 2 luglio 2016, p. 1 ss. (^54) Sul punto, mi sia consentito rinviare ad A. LICASTRO , Libertà religiosa e competenze amministrative decentrate , in Dir. eccl ., n. 3-4/2010, p. 626 ss.
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Mentre, dunque, gli aspetti essenziali della libertà religiosa si inscrivono “in un ambito nel quale sussistono forti e qualificate esigenze di eguaglianza”^59 , «il regime pattizio (artt. 7 e 8, terzo comma, Cost.) si basa sulla “concorde volontà” del Governo e delle confessioni religiose di regolare specifici aspetti del rapporto di queste ultime con l’ordinamento giuridico statale»^60 e, quindi, ancora una volta – si potrebbe dire – gli accordi non assurgono in alcun modo a tramite necessario per “garantire le condizioni che favoriscano l’espansione della libertà di tutti e, in questo ambito, della libertà di religione”, nonostante sia – indiscutibilmente – “compito della Repubblica” raggiungere questo obiettivo, come sottolineato in premessa dalla stessa Corte (facendo richiamo all’immancabile principio di laicità e a quanto i giudici avevano affermato nella sent. n. 334 del 1996)^61. Ma i contenuti della legge lombarda offrono alla Corte lo spunto per approfondire anche la questione dei limiti opponibili alla libertà di religione come diritto fondamentale (di là, ovviamente, del riferimento esplicito contenuto nell’art. 19 Cost. ai “riti contrari al buon costume”), in relazione alla quale gli orientamenti più consolidati del passato sono, talvolta, messi in discussione di fronte a nuove emergenze determinate dall’eco prodotta dalle forme più violente e sanguinose del terrorismo religioso fondamentalista, come dal diffondersi nel Paese di forme di religiosità piuttosto “eccentriche”. Diverse misure introdotte dalla normativa regionale apparivano proprio dettate in funzione delle esigenze di sicurezza e di tutela dell’ordine pubblico e la Corte ne contesta soltanto la riconducibilità alle competenze dell’ente territoriale, ribadendo, per converso, che gli interessi a esse sottesi possano entrare a pieno titolo nelle sempre più complesse operazioni di bilanciamento in cui prende sempre più spesso corpo anche la tutela delle libertà collegate con la sfera religiosa. Se, quindi, come è stato osservato,
(^59) Vedi par. 5.2 del Considerato in diritto. (^60) Vedi par. 4.1 del Considerato in diritto. C’è un passaggio della motivazione (par. 4.1 del Considerato in diritto : ”Data l’ampia discrezionalità politica del Governo in materia, il concordato o l’intesa non possono costituire condicio sine qua non per l’esercizio della libertà religiosa”) che sembra avere invertito l’ iter logico seguito dalla Corte nella sentenza n. 52 del 2016, in quanto sembrerebbe ora che sia la discrezionalità politica del Governo a escludere che le intese possano condizionare l’esercizio della libertà religiosa (e non piuttosto, come si era detto nella precedente pronunzia, che sia l’asserita non strumentalità di questi accordi alle garanzie di libertà religiosa a giustificare il pieno potere discrezionale dell’Esecutivo). (^61) Corte cost. n. 63 del 2016, par. 4.1 del Considerato in diritto.
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“le deroghe e i privilegi che erano stati progressivamente accordati al fine di garantire una piena realizzazione del diritto di libertà religiosa vengono posti in dubbio, specie quando essi contribuiscono in qualche misura ad affievolire le esigenze di sicurezza della collettività”^62 ,
l’indicazione che viene ora dalla Corte è, sì, quella dell’ineludibile considerazione di interessi primari confliggenti con quelli sottesi alla libertà di religione, ribadendosi però, allo stesso tempo, la necessità di ricercare sempre forme di bilanciamento tra gli interessi in conflitto – nel “rigoroso rispetto dei canoni di stretta proporzionalità ” – che non comportino sacrifici oltre quanto risulti strettamente congruo e necessario per la tutela di quegli interessi. Sono ben noti i termini del dibattito svoltosi in seno all’Assemblea Costituente sulla possibilità di considerare l’”ordine pubblico” quale limite della libertà religiosa. Ora la Corte ribadisce a chiare lettere che tra
“gli interessi costituzionali da tenere in adeguata considerazione nel modulare la tutela della libertà di culto […] sono senz’altro da annoverare quelli relativi alla sicurezza, all’ordine pubblico e alla pacifica convivenza ”^63.
A garantire dagli “abusi” cui potrebbero prestarsi le relative nozioni dovrebbero oggi valere gli esiti del giudizio di proporzionalità, attraverso la cui applicazione nessuno dei diritti protetti dalla Costituzione potrà godere di una tutela “assoluta e illimitata” e quindi «farsi ”tiranno”»^64. In questi passaggi della motivazione non vedrei alcun elemento che possa preludere a una riconsiderazione in senso autoritario o illiberale degli atteggiamenti del nostro Stato verso l’esperienza religiosa “non tradizionale”^65 , ma non può forse negarsi la possibilità di cogliervi il tentativo (che emerge, a mio parere, anche da alcuni passaggi della sentenza n. 52, su cui si tornerà diffusamente più avanti) di “riposizionare”, magari
(^62) V. BARSOTTI, N. FIORITA , Separatismo e laicità. Testi e materiali per un confronto tra Stati Uniti e Italia in tema di rapporti stato/chiese , G, Giappichelli Editore, Torino, 2008, p. 38. Cfr. anche N. FIORITA , P. CONSORTI , La libertà religiosa , cit_._ , secondo i quali, negli ultimi tempi, la libertà religiosa è transitata “da un’accezione positiva e virtuosa verso una percezione negativa, fino ad essere considerata – almeno in alcuni ambienti – un rischio per la sicurezza dello Stato”. (^63) Par. 8 del Considerato in diritto (mio il corsivo). (^64) Par. 8 del Considerato in diritto. (^65) Esprime, invece, forti riserve sugli aspetti della pronunzia riguardanti i limiti opponibili alla libertà religiosa, M. CROCE , L’edilizia di culto , cit_._ , p. 4 s., secondo il quale, addirittura, la «tutela costituzionale della libertà religiosa […] sembra di nuovo inclinare verso una visione da “culti ammessi” (e pure “preferiti”) che sembravamo esserci lasciati alle spalle».